- Categoria: Back In The Dayz
- Scritto da Klaus Bundy
Miseria e Nobiltà
“I soldi sono lo sterco del demonio”. Le perle di saggezza popolare non sono mai banali, ed anche in questo caso la frase citata offre interessanti spunti di riflessione, applicabili a quella che comunemente definiamo “la filosofia del movimento hip-hop”.
La stragrande maggioranza delle persone tende a commettere il madornale errore di credere che alla base del pensiero ci sia il denaro, come se quest’ultimo fosse il punto da cui partire per decifrare usi e costumi della cultura; in realtà, i soldi sono soltanto una mera conseguenza delle vicende storiche che hanno plasmato l’intero fenomeno nel modo in cui lo conosciamo oggi, pur riconoscendo responsabilità oggettive da parte di alcuni esponenti per lo stato critico in cui versa la reputazione dell’hip-hop presso la nuova generazione.
Per non cadere nella trappola di banalizzarne il valore simbolico, quindi, chiediamoci perché il denaro sia sempre stato così fortemente glorificato da più o meno tutte le scuole di pensiero che si sono succedute negli anni, e smettiamo d’imporci il limite di giustificare la superficialità in nome della tanto propagandata “rabbia”.
E’ ovvio che i soldi siano ambiti da chiunque e, chi lo nega, è ben consapevole di mentire; tuttavia, nel momento in cui dobbiamo cercare delle risposte all’interno di una storia complessa, l’ingordigia di banconote non può motivarsi in maniera indipendente, poiché tutto è soggetto al principio causa/effetto e non esiste ragione sociale fine a sé stessa.
Nei primissimi anni, dopo la dissoluzione del BBP, l’hip-hop credeva esclusivamente nei valori della fratellanza, della solidarietà e dell’identità etnica, e la questione relativa alla sete di ricchezza era qualcosa che poco si distingueva dai sogni tipici di ogni cittadino in terra americana, non necessariamente nero e condannato alla ghettizzazione. Grandi pensatori del calibro di Huey P. Newton e lo stesso Malcolm X non avevano scolarizzato la propria gente nel nome del dio denaro, e l’eredità lasciata da questi giganti aveva permesso ai loro discepoli di pensare ad un modo alternativo per affrontare il problema del razzismo e della povertà, pur legittimando la sfida violenta nei confronti dell’ordine costituito.
La vera chiave di volta fu l’enorme crisi economica che sconvolse il mandato presidenziale di Ronald Reagan, a metà degli anni ’80: spingere la ripresa attraverso il canale dell’incremento dell’offerta invece che della domanda ebbe come risultato il peggioramento generale delle condizioni degli americani medi, e ancor di più degli emarginati, affetti dalla già spinosissima piaga della diffusione del crack, il cui spaccio stava insanguinando praticamente ogni quartiere periferico statunitense.
Fu in quel momento che ci fu un’inversione di tendenza: insieme alla prosa della violenza, i testi dei portavoce del movimento hip-hop iniziarono a parlare dei loro sogni per sfuggire all’incombente miseria, tra cui quello di possedere sufficiente denaro per permettersi un tenore di vita migliore, un’ambizione assai poco biasimabile.
A dire il vero, l’abbondanza di beni materiali ha sempre ben nutrito l’ego degli uomini e, già quando gli MC iniziarono a darsi battaglia nei contest underground successivi alla faida tra Kool Moe Dee e Busy Bee (1981), l’idea di soggiogare l’avversario attraverso la pantomima del “io ho più soldi di te, quindi ti sono superiore”, era diventato un mantra destinato a non estinguersi.
C’è da dire, però, che da allora le cose sono profondamente cambiate, e non è stato un bene: sentire un rapper trattare di macchine costose, collane ed anelli d’oro, oggi, non fa più notizia, e l’ossessivo parlarne ha portato le menti meno analitiche a credere che l’hip-hop professi l’esclusivo culto dei soldi.
Dunque, invertire questo scadente trend è quasi un obbligo, ma non possiamo aspettarci che qualcuno lo faccia per noi: l’hip-hop si costruisce dal basso, le idee che cambieranno il domani vengono da noi. Se saremo in grado di dare nuova linfa vitale alla nobile virtù della coscienza sociale, riusciremo a divincolarci dai fastidiosi stereotipi con i quali la gente comune ci etichetta, restituendoci dignità e anche – perché no – attendibilità politica. La scelta sta a noi.