facebook  twitter  vimeo  YouTube  

Menu
  • Categoria: Back In The Dayz
  • Scritto da Klaus Bundy

La lunga storia d'amore tra Muhammad Ali e l'Hip-Hop

Muhammad_Ali

Tra l’hip-hop e la boxe c’è sempre stato un legame indissolubile.

Nel nome di quella tradizione che vuole l’uomo nero in costante conflitto con una società oppressiva e castrante, questo sport attrae fin dagli albori e con grande efficacia larga parte della popolazione afroamericana, affascinata dalla filosofia che contraddistingue la dottrina, la quale premia notoriamente lo spirito di sacrificio e la sicurezza nei propri mezzi.

Le innumerevoli citazioni presenti nelle canzoni rap di ogni epoca sono lì a testimoniarcelo: da Snoop Dogg (“Breakin’ niggas down like Evander Holyfield”) al Wu-Tang Clan (“I smoke on the mic like ‘Smokin’ Joe’ Frazier”), da Eminem (“Come right back on their asses and go Mike Tyson on these bastards”) ai Roots (“Where the dope slangin’, keep swangin’ like Sonny Liston”), ogni generazione hip-hop ha subìto la forte influenza della boxe e dei suoi protagonisti, elevandoli al grado di “idoli”, non soltanto per le loro imprese sul ring, ma anche per l’aura di leggenda che circonda generalmente ognuno di questi guerrieri, indipendentemente dalle sconfitte.

Viene spesso ricordato, d’altronde, che la boxe non è altro che una metafora della vita.

Il primo mito, tra i pugili di colore, fu senza dubbio Joe Louis, ancora oggi annoverato tra i più spietati picchiatori di tutti i tempi ed entrato nella leggenda popolare per aver messo al tappeto Max Schmeling, all’epoca – siamo nel 1938, alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale – orgoglio ariano della Germania di Adolf Hitler.

Quella vittoria - che arrivò dopo una prima bruciante sconfitta per Louis, patita contro il tedesco soltanto due anni prima – fu considerata la vittoria di tutti i neri, una vendetta che fece prevalere la voglia di emergere degli emarginati in una società segnata dal razzismo, non solo rappresentato dal totalitarismo nazista, ma anche dal sistema “apparentemente democratico” degli Stati Uniti d’America.

Nonostante molti pugili di colore siano oggi ricordati come tra i migliori interpreti della nobile arte, comunque, il nome più strettamente associato all’hip-hop è e resterà sempre quello di Muhammad Ali.

Ali è universalmente celebrato come il miglior pugile, nonché uno tra i più grandi sportivi del XX secolo, ma le sue epiche battaglie sul ring non basterebbero a giustificare il perché la comunità hip-hop abbia visto nel suo irrequieto personaggio un faro della propria causa.

In realtà, il motivo che si cela dietro questo spontaneo sodalizio è duplice: in primo luogo, Ali, contrariamente alla maggior parte dei suoi colleghi di colore, non mancò mai di prendere posizioni forti contro la segregazione razziale e le politiche di Washington, tanto che la sua carriera avrebbe potuto essere ancor più colma di successi, se il suo comportamento e le sue dichiarazioni pubbliche fossero state più zelanti; inoltre, “il labbro di Louisville” (così era anche soprannominato) raggiunse l’apice della sua carriera in un periodo storico caratterizzato dalle lotte per i diritti civili, che videro il ragazzo avvicinarsi alle personalità ribelli più note dell’epoca (Malcolm X su tutti), condividendone il pensiero sovversivo e rivoluzionario.

Fu proprio il suo rifiuto di arruolarsi per servire il paese nella Guerra del Vietnam a costargli la revoca della licenza pugilistica – dal marzo del 1967 all’ottobre del 1970 – con annessa sottrazione della cintura (era campione dei pesi massimi ed aveva difeso il titolo già per otto volte consecutive), una forte presa di posizione che lo tramutò allo stesso tempo in un nemico per i promotori del conflitto ed in un autentico eroe per il popolo, in larga parte contrario all’assurda spedizione asiatica.

Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato ‘negro”, fu la maliziosa risposta che il campione diede ad un giornalista, interrogato sulla sua opinione riguardante la crisi diplomatica vietnamita.

Come detto poc’anzi, Ali fu in grado di guadagnarsi la stima di tantissimi appassionati di sport bianchi, nonostante l’incombente piaga del razzismo e la pericolosa vicinanza del pugile alla Nation of Islam, l’organizzazione di cui Malcolm X fece parte per diversi anni e che predicava una sorta di “razzismo alla rovescia”: secondo gli intricati precetti del leader spirituale della setta, il discutibile Elijah Muhammad (che si considerava diretto portavoce di Allah in Terra ed ereditò il pensiero dal fondatore della NOI, Wallace Fard Muhammad), i bianchi (indicati come “race of devils”, “razza di diavoli”) non erano altro che una creazione dello scienziato Yakub, vissuto oltre seimila anni fa, il quale sottovalutò il loro potere e ne permise la moltiplicazione, al punto che questi arrivarono a sottomettere il popolo dominante, quello nero, portando morte e sciagure su tutto il pianeta.

Sembra assurdo oggi pensare che una storia del genere possa aver influenzato centinaia di migliaia di persone in tutta America (e che continui a vivere, seppur in maniera molto ridimensionata, attraverso l’opera oratoria di Louis Farrakhan), eppure, conquistati soprattutto dal carisma di Elijah Muhammad, anche due persone dall’invidiabile intelligenza come Malcolm X e Ali ne furono soggiogate e si trasformarono in convinti discepoli del gruppo.

Fu proprio Elijah Muhammad a cambiare il nome del nostro in Muhammad Ali, sostenendo che quello di battesimo, Cassius Clay, fosse soltanto uno stupido “timbro” che lo teneva legato alle sue origini da schiavo.

Quando Malcolm X cominciò ad allontanarsi dai bizzarri princìpi della Nation of Islam, intorno al 1964, Ali scelse di schierarsi dalla parte della setta, nonostante X fosse stato uno dei suoi più stretti amici, colui che l’aveva avvicinato al culto della NOI e che fu di enorme aiuto emotivo nei giorni che precedettero il primo dei due storici scontri con il terribile Sonny Liston (vinti entrambi).

Negli anni successivi alla morte di Malcolm X, avvenuta il 21 febbraio 1965, Ali si sarebbe pentito di aver rinnegato il leggendario attivista, ma è interessante osservare come egli sia stato sempre accostato al “braccio violento” della lotta per la fine del segregazionismo negli States, e mai al suo lato pacifista, impersonato in quegli stessi giorni dalla figura altrettanto carismatica del reverendo Martin Luther King, Jr.

Sostanzialmente, si potrebbe dire che, in virtù del suo carattere, così aggressivo (anche se solo in apparenza) e diretto, uno come Ali non sarebbe potuto mai andare davvero d’accordo con la nonviolenza gandhiana predicata da King, secondo una divisione antropologica che vedeva l’intero universo della boxe lontano dai moti di protesta sorti nell’ormai famosa Montgomery, in Alabama.

Ciò che resta nei ricordi di chi ha studiato il personaggio, a proposito dell’energia che lo caratterizzava, è la sua incredibile capacità di trascinare la politica sociale in ogni incontro, facendone uno spettacolo imperdibile, nel quale l’unica speranza dei reietti e degli oppressi (incarnata da Ali stesso) avrebbe sfidato sul quadrato il rappresentante delle istituzioni corrotte, dei colletti bianchi, dell’America razzista e nostalgica dello schiavismo (l’avversario di turno).

Questo suo modo di presentare gli incontri di cui era protagonista, talvolta, era anche esposto ad una serie non trascurabile di contraddizioni (come quando diede dello “zio Tom” a Joe Frazier, nonostante fosse il suo allenatore ad essere bianco, il leggendario Angelo Dundee), ma sono anche questi particolari ad aver alimentato il focolare della gloria di Ali.

Pure il momento più alto della sua carriera, quando affrontò George Foreman nel famoso “Rumble in the Jungle” del 1974, fu caratterizzato da una incoerenza di fondo.

Per la comunità nera di ogni angolo del pianeta, il match Ali-Foreman poteva considerarsi una vittoria su tutti i fronti: si trattava, infatti, di un evento su scala mondiale, che vedeva protagonisti due pugili afroamericani, organizzato da un promoter di colore (l’eccentrico Don King) ed ospitato da un paese africano (lo Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo).

La verità, però, è che le varie celebrità nere che visitarono la città di Kinshasa nelle settimane precedenti l’incontro (James Brown e B.B. King, tra gli altri, si esibirono allo Zaire 74, un festival musicale organizzato da Don King per promuovere il match e che radunò circa ottantamila persone) si ritrovarono al contempo testimoni della forza di emancipazione nera ed ospiti di un paese governato da uno spietato tiranno.

Il dittatore Mobutu, infatti, aveva voluto fortemente che l’evento avesse luogo sul suo territorio per tenere a bada lo scontento della popolazione zairiana, un espediente utilizzato spesso e volentieri dai regimi per conservare il consenso dei cittadini (lo stesso accadde nello spettacolare “Thrilla in Manila”, combattuto da Ali e Frazier nelle Filippine, sponsorizzato dal presidente Ferdinand Marcos).

Mobutu, mentre i suoi sudditi morivano letteralmente di fame, era intestatario di un patrimonio stimato tra i 4 e i 15 miliardi di dollari, e fu forse l’uomo che più di tutti contribuì a far sprofondare un paese così ricco di risorse naturali come l’attuale Congo in una pericolosissima terra di nessuno, da tantissimi anni ormai vittima di sfruttamenti stranieri ed incessanti guerre civili.

Su questo particolare punto, sia per quanto riguarda l’africano Mobutu che il filippino Marcos, Ali non si espresse mai pubblicamente, preferendo invece traghettare l’attenzione verso il disprezzo per l’avversario e la sua personale grandezza, sia come uomo che come pugile.

Ali fu anche questo ma, come suggeriscono le Scritture, “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”.

La carriera del nativo di Louisville terminò ufficialmente l’11 dicembre 1981, dopo una triste sconfitta contro il giamaicano Trevor Berbick, lo stesso che, cinque anni dopo, avrebbe perso il titolo in favore di Mike Tyson, che diventò quindi il più giovane campione dei pesi massimi di sempre, destinato a raccogliere in qualche modo l’eredità lasciata da Ali.

Oggi, dilaniato dalla vecchiaia e dalla crudeltà del morbo di Parkinson, il settantaquattrenne Muhammad Ali ha smesso di ballare sul ring. Nessuno può davvero prevedere quanto le sue precarie condizioni di salute gli permetteranno di tirare avanti, ma il suo nome è già scritto da parecchi anni nell’albo dei più importanti uomini del secolo scorso, ed è bene evidenziare quanto il suo contributo non sia stato esclusivamente relegato alla boxe – di cui fu comunque il suo più illustre interprete – ma abbia abbracciato aspetti fondamentali della società statunitense degli anni ’60 e ’70, nelle vesti dell’illuminato difensore della fazione afroamericana, pieno di quel vigore e di quella determinazione che il movimento hip-hop ha preso ad esempio e da cui i suoi migliori pensatori hanno attinto per dar forma alla propria abilità espressiva.

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).