- Categoria: Film
- Scritto da Gabriele
Sindrome di dipendenza da The Get Down (Parte 1)
Come avrete visto di recente in qualche angolo della vostra bacheca virtuale se masticate di rap, avrete notato che il 12 Agosto , Netflix ha lanciato nel mondo e anche in Italia la prima parte di "The Get Down", una serie ambientata nel periodo di transizione tra la fine della Disco Music e la nascita della cultura Hip Hop negli anni '70 nel quartiere South Bronx di New York.
"The Get Down" è stata la serie più costosa mai prodotta nella breve storia di Netflix, che infatti ha fatto il possibile per lanciarla in grande stile (anche in Italia), facendo in modo che il prodotto non perdesse di credibilità tra gli appassionati della cultura. Non a caso infatti, due pionieri come Nas, che ha realizzato la sigla di ogni puntata (sì, la sigla cambia ogni puntata) e Grandmaster Flash, che ha un ruolo all'interno della storia (interpretato da Mamoudou Athie), hanno partecipato attivamente alla serie nel ruolo di produttori esecutivi.
Ho visto i sei episodi di "The Get Down" e la più bella notizia dopo averla vista, oltre al fatto che crea dipendenza e che non spoilererò in questo articolo, è che la serie affronta un tema come quello della nascita dell'Hip Hop in modo realistico. Quello che intendo dire è semplicemente che, come molti di voi avranno notato, troppe volte, quelli che dovevano essere i film sul rap o l'hip hop, si sono rivelati un'accozzaglia di stereotipi su modi e costumi di chi condivide questa passione, buttati giù in modi abbastanza scontati (chi ha detto "Zeta"?), ma per fortuna non è questo il caso.
Infatti nonostante siano stati realizzati anche bei film, la principale difficolta di chi si è trovato a creare una pellicola sull'Hip Hop è stata storicamente quella di ricreare situazioni realistiche, in cui chi conosce la cultura e il genere musicale, si possa ritrovare, senza provare quella strana sensazione di vergogna stile rap delle pubblicità/Raffaella Carrà con Eminem a Sanremo. In "The Get Down" la trama, che puoi apprendere dal trailer qui sotto, ha tutto quello che avremmo voluto: realismo e naturalezza. Nulla risulta forzato nella storia e, GRAZIE A DIO!, ci si allontana finalmente dal visto e rivisto schema per cui il rapper di turno deve fare il rapper perchè "deve uscire dal ghetto e ha solo quello e deve farcela perchè ha solo quella occasione e perchè lo vede nel suo destino" e altre robe alla "Step Up" che il regista premio Oscar Baz Luhrmann ci ha risparmiato.
Infatti il protagonista, l'afro-portoricano Zeke, si trova davanti al bivio, senz'altro più comune, tra la vita "ordinata" da cittadino integrato nella bella New York per cui la sua amata Mylene spinge, e l'inseguimento del sogno assieme ai suoi amici, rappresentato da questa serie di feste dove si graffiano giradischi e si mettono break di batteria in loop, ma che nessuno ancora si azzarda a chiamare "Hip Hop". La componente sentimentale è infatti il punto cardine attorno a cui viene cosruito tutto il contesto culturale, ed è ciò che rende questa serie una serie e non un documentario. Il rapporto principale è sicuramente quello tra Zeke e la bella Mylene, ragazza portoricana, aspirante cantante Disco, ma con un padre fanaticamente religioso che sostiene che la Disco sia la voce del diavolo e che la vuole far cantare solo nella chiesa pentecostale di cui è pastore. A tal proposito vanno fatti i complimenti ai realizzatori della serie per aver voluto raccontare anche una comunità come quella latina, spesso lasciata a margine nei racconti a tema Hip Hop, ma che ha senza dubbio influenzato e contribuito a creare questa cultura.
Ed è proprio il racconto della vita di Mylene che ci introduce nell'altro mondo della serie, che è quello dell'industria musicale, in particolare in quello della Disco Music al suo picco di vendite storico, tra discografici accattoni, gangster, manager drogati e vestiti inguardabili sfide di ballo in discoteca. E qui si arriva al punto più figo della serie, che è il contrasto tra Disco Music e Hip Hop, un contrasto di cui si è raccontato pochissimo, cinematograficamente e non, ma che aiuta sicuramente a comprendere al meglio le radici della cultura hip hop, nata quasi come reazione naturale ad un lifestyle fin troppo frivolo in tempi come quelli della New York dei '70.
Se poi pensate che il viaggio all'interno dell'Hip Hop si fermi al rap e ai giradischi vi sbagliate. Tra gli amici di Zeke, troverete appasionati di writing, breakers, ma soprattutto Shao, forse il personaggio più cool della serie che probabilmente rilancerà la vendite di sneakers Puma in tutto il mondo. A ciò si aggiunge un gran lavoro di ricostruzione delle sfide tra crew che nonostante siano molto realistiche, e qui si sente la presenza di personaggi come Flash e Nas nella realizzazione, sono state ideate in modo da essere comunque apprezzate da uno spettatore medio del 2016, probabilmente non pronto per intervalli musicali alla "Wild Style".
Sono passati soli pochi giorni da quando ho finito di vedere "The Get Down" per la prima volta, ma ho veramente pochi dubbi nel dire che questo è uno dei migliori lavori cinematografici mai realizzati su questo tema. Se uno dei motivi che lo rende tale è la già citata credibilità, l'altro è senza dubbio la completezza con cui non solo viene raccontata la nascita di una cultura, ma un intero periodo storico, malavita e malapolitica compresi. Il tutto senza poi tagliare fuori le fondamenta di ogni serie tv: come suspense, rapporti familiari e sentimentali tra segreti e mezzi tradimenti, che rendono il prodotto fruibile per qualsiasi tipo di spettatore. Tutto ciò senza dimenticare poi la musica, onnipresente e mai fuori posto, e che vi vorrete ascoltare i su Apple Music una volta finita la serie (l'intera colonna sonora è attualmente esclusiva Apple Music).
"The Get Down" è la serie che questa cultura meritava e che personalmente aspettavo da tempo. Se credibilità, completezza e intrattenimento sono gli elementi che la rendono il prodotto perfetto sia per l'appassionato storico che per il vostro/la vostra compagno/a di divano che pensa che Grandmaster Flash sia una marca di pile ricaricabili, bestemmie, senso di smarrimento, ma anche e soprattutto ispirazione, sono quello che vi rimarrà una volta finita la serie, che, visto il massiccio uso di slang e spagnolo nel linguaggio dei personaggi, consiglio vivamente di vedere in lingua originale.