- Categoria: Eyes On The Game
- Scritto da Marco Bianchessi
Che senso ha avuto fare rap nel 2016?
Il 2016 è stato un anno incredibile per il rap in generale, ormai è qualcosa di completamente sdoganato, compreso ed assimilato, fare rap nel 2016 (mi spiace deludere i puristi) non ha più nulla di rivoluzionario, tutti fanno rap.
D’altra parte mentre questo fenomeno diventa sempre più parte della quotidianità di ciascuno di noi, tanto che anche il padre della mia ragazza si ascolta Sferaebbasta, si è assistito dall’altro lato (da parte di pochi) alla ricerca di un nuovo modo di interpretare la disciplina. Non parlo di nuovo nel senso di mai sentito prima o rivoluzionario, parlo piuttosto del modo con cui queste persone hanno interpretato e fatto proprio una musica che ormai ha già detto, forse e purtroppo, tutto quello che aveva da dire.
Il primo esempio che vorrei fare è J.Cole, il suo nuovo album “4 Your Eyez Only”, è senza ombra di dubbio uno dei dischi più forti e meglio riusciti del 2016. Egreen in un’intervista fatta a The Man in Red, disse una volta “per il gran rap non ci sono molte sfumature di significato”: penso che questa frase rappresenti alla perfezione questo disco, nel 2016 fare canzoni che durino 8 minuti, tracce senza ritornelli, no autotune, un disco senza featuring, tracce ben curate e pensate e una storia da raccontare non è una cosa da poco. Come se non bastasse riesce a fare tutto ciò senza risultare pesante o noioso, in qualche modo J.Cole ci dimostra come si possa fare del rap con la R maiuscola ancora.
Il secondo esempio che vorrei fare riguarda un artista Italiano che secondo me quest’anno ha fatto il botto: Achille Lauro con “Ragazzi Madre” ha compiuto un mezzo miracolo, riuscire a coniugare la trap con qualcosa che sia crudo, senza risultare un pagliaccio. Suoni molto cupi e storie che lo sono altrettanto, un mix letale di storytelling rabbiosi e autocelebrazione nel modo più coatto possibile. Lo scorrere delle tracce permette all’ascoltatore di entrare nella testa del narratore, vivere le sue storie e capire le sue logiche, senza che queste risultino ripetitive o che sembrino costruite ad hoc, quasi come fossero fatte di plastica.
Il terzo esempio, è stata forse la sorpresa più bella di quest’anno e parlo di Anderson .Paak, in particolare del suo disco “Malibu”. 16 tracce di pura freschezza nelle quali il nuovo pupillo di Dr.Dre, ci fa tornare indietro negli anni, con sonorità che spesso sono lontane dal mondo del rap ma si rifanno più alla tradizione afroamericana in generale, con la tendenza a ricercare nel blues, nel soul e nel jazz, le idee per andare a costruire le canzoni. “Malibu” è uno splendido viaggio sulle spiagge della California, lontano anni luce dalla trap ma anche del rap più canonico e con questo disco Anderson si dimostra fedelissimo a tutto il suo background culturale reinterpretandolo con una freschezza difficilmente riconoscibile nel rap mainstream del 2016.
Ho selezionato questi album perchè li ho trovati i casi più eclatanti ma se ne potrebbero citare altri come Childish Gambino o Kanye West, in Italia Rkomi o Ghali, e altri ancora, per arrivare a dire una semplice cosa: è ancora possibile fare musica fatta bene, utilizzando il rap come mezzo espressivo (rimanendo nei suoi canoni o uscendone) anche nel 2016, anche nel momento in cui questa musica è la più ascoltata del pianeta e, infine, per ribadire che “per il rap fatto bene non ci sono molte sfumature di significato”.