- Categoria: Back In The Dayz
- Scritto da Klaus Bundy
Dai block party al crack: subentra la violenza
Gli elementi essenziali dell’-hip-hop nacquero come risposta alla povertà e alla ghettizzazione.
Nei primi anni ’70, la costa est degli Stati Uniti brulicava di quartieri virtualmente abbandonati – concentrati principalmente nei distretti newyorkesi del Bronx, di Brooklyn e del Queens – dove gli invisibili afroamericani avevano avuto la necessità di dare un’identità alla loro fazione, in risposta ad una politica sociale che non prevedeva alcun tipo di assistenza.
Il lavoro non c’era e la criminalità rischiava di prendere il sopravvento: spinti da rabbia e fame, ragazzi di ogni età stavano diventando velocemente dei militari urbani, spietati e raggruppati in gang di strada dalle dimensioni più o meno contenute.
La cultura hip-hop, agli albori, avrebbe dovuto costituire un’alternativa a quel tipo di vita: la musica, i graffiti e la breakdancing erano arti che andavano ben oltre lo svago fine a sé stesso, e l’indole fraterna degli abitanti del ghetto apriva le porte a chiunque volesse far parte di quello stile di vita, volto alla costruzione di una nuova “religione” in cui credere e per cui tener duro.
La fotografia perfetta di quanto accadde a New York in quegli anni è data dall’avvento dei cosiddetti “block party”: stimolati dalla potente musica funk proveniente da sistemi collegati ai cavi per l’erogazione dell’energia elettrica ai lampioni pubblici, i cittadini appartenenti allo strato più basso della società si dimenavano all’insegna della spensieratezza e della congregazione, improvvisavano numeri pirotecnici su raffazzonate piste da ballo e facevano tutto quanto fosse necessario per dimenticare – almeno per qualche ora – di essere degli emarginati nel proprio paese.
L’incredibile successo ottenuto da queste chiassose iniziative iniziò ben presto ad attirare la stampa del settore, incuriosita dalla rapida espansione di un movimento undeground nato sulle ceneri della discriminazione razziale: già verso la fine degli anni ’70, diverse mostre furono organizzate per esporre i lavori più impegnati dei graffitari (i quali, nel frattempo, erano passati dai semplici tag nelle metropolitane alla composizione di vere e proprie opere d’arte), e le case discografiche iniziarono a domandarsi se quel nuovo tipo di musica, che mescolava elementi del funk con sfumature di disco, non fosse commerciabile presso il mercato di prima fascia, quello delle radio nazionali e della televisione pubblica.
Fu attraverso l’immensa forza di volontà degli autori (e l’intuizione di alcuni illuminati burocrati della musica) che pezzi ormai leggendari come “The Message” di Grandmaster Flash & The Furious Five e “Rapper’s Delight” della Sugarhill Gang riuscirono a conquistare le platee più importanti del mondo, ma l’illusione di gloria data dalle abbaglianti luci stroboscopiche delle discoteche del mondo bianco non era destinata a durare.
Da un punto di vista sociale, infatti, il successo musicale non andava di pari passo con quanto stava accadendo nelle strade: ad ovest, i Crips di Raymond Washington e Stanley “Tookie” Williams si erano già organizzati per prendere in mano l’economia illegale dei quartieri alla periferia di Los Angeles (South Central, Compton, Watts) mentre, nella Grande Mela, Afrika Bambaataa stava cercando di mettere ordine con la sua Zulu Nation, illuminato da un viaggio in Africa dalle tinte mistiche.
Perché tutto ciò? La risposta è semplice: nella più chiara situazione di rapporto causa-effetto, il degrado suburbano permesso dalla politica a stelle e strisce non stava facendo altro che spingere i propri cittadini disagiati verso la filosofia del “by any means necessary”. Il business illegale spalancava le porte alla droga e alle rapine, e droga e rapine significavano soldi, cioè quanto di più avevano bisogno chi non poteva permettersi nulla.
Fu in questo periodo, infatti, che nacquero le figure più idolatrate da i rapper contemporanei, le cui gesta sono ancora raccontate con la stessa aura mitologica delle storie di Billy the Kid e Wyatt Hearp nel vecchio West: a New York c’erano malviventi del calibro di Kelvin “50 Cent” Martin (che operava nella zona di Fort Greene, a Brooklyn) e Kenneth McGriff, mentre ad ovest operavano celebrità della polvere bianca come Freeway Ricky Ross e Michael “Harry-O” Harris.
In un panorama già seriamente compromesso dal proliferare dell'illecito, furono due i fattori che diedero all’hip-hop quella conformazione dispotica e sfrontata pervenuta fino ai giorni nostri: l’avvento del Governo di Ronald Reagan e la scoperta del crack.
Quando Reagan entrò in carica, nel gennaio 1981, la sua idea per il rilancio dell’economia americana fu assurda quanto fallimentare: in pieno stile repubblicano, invece di stimolare la domanda redistribuendo le ricchezze tra i contribuenti, il presidente scelse di puntare sull’incremento dell’offerta, con il risultato di immettere nel circuito commerciale beni in eccedenza e lasciare i cittadini delle classi medio-basse con le tasche ancora più vuote di prima.
L’epidemia del crack, nel frattempo, era pronta ed esplodere come una bomba ad orologeria: pensato per i consumatori di cocaina le cui cartilagini nasali erano distrutte per l’abuso della sostanza, il crack era venduto in cristalli (simili ai sali da bagno), che venivano bruciati in pipe improvvisate per inalarne i fumi; la possibilità di creare una grande quantità di cristalli partendo da pochi grammi di cocaina pura rese velocemente ricchi gli spacciatori di quartiere, e scatenò una guerra spietata per il controllo del territorio che decimò un’altissima percentuale di giovani afroamericani.
E’ in questo drammatico contesto che i contenuti della musica rap - e l’intero atteggiamento del movimento - finirono per scurire profondamente le proprie tinte…