- Categoria: Back In The Dayz
- Scritto da Klaus Bundy
Quando 50 Cent e la G-Unit dominavano il mondo
Sembra ieri, eppure sono già passati oltre dieci anni da quando la favola della G-Unit è arrivata al suo triste capolinea.
Per chi scrive, i giorni del regno della crew di 50 Cent hanno probabilmente rappresentato la massima espressione del mainstream del nuovo millennio, giacente nel confortevole limbo tra popolarità e credibilità di strada.
Facendo il paragone con oggi, è desolante constatare quanto i tempi siano cambiati, e la nostalgia non fa certo parte di un impianto mentale riluttante all’evoluzione, ma è il risultato della constatazione di quanto il mercato odierno si sia svuotato del principio di autenticità che, un tempo, stava alla base della costruzione di ogni personaggio di rilievo; al di là dei meri giullari da palcoscenico (qualcuno, forse, si ricorderà di Lil Jon), la condizione perché un rapper avesse accesso nell’olimpo dei grandi – fino al 2007 circa – era la sua reputazione presso chi abitava i ghetti, ed il benestare del mondo sommerso - un vero e proprio passepartout – poteva addirittura mettere sulla mappa individui le cui capacità al microfono non erano certo eccelse, purché fossero “veri”.
Quando, nel 2003, con “Get Rich or Die Tryin’”, il fenomeno Curtis “50 Cent” Jackson esplose improvvisamente a livello planetario, la comunità hip-hop si rese conto di una cosa: il modus operandi che aveva fatto la fortuna di Biggie e Tupac (quello di confezionare prodotti per i club, pur mantenendo una forte connessione con le proprie radici) aveva trovato il suo erede.
Sul finire degli anni ’90, dalla notte dell’omicidio che tolse la vita a Biggie in poi, il panorama rap si era evoluto in fretta, e la piega che aveva preso non era stata accolta con grande entusiasmo da tutti, specialmente dalle teste più anziane, abituate ad una musica che tenesse un filo diretto con la comunità sotterranea: i nuovi idoli erano diventati Will Smith, Snoop Dogg (versione No Limit, una caricatura rispetto allo smilzo gangster di “Doggystyle”), Jay-Z e l’eccentrico Busta Rhymes, mentre Puff Daddy – orfano di B.I.G. – aveva deciso di sovraesporsi per non far soccombere il marchio Bad Boy, collaborando con qualunque artista che avesse un minimo di potenziale commerciale.
Quando “Get Rich” arrivò nei negozi, dunque, 50 Cent fu accolto dallo zoccolo duro del movimento come un nuovo messia, finalmente vate di un trend che sembrava ormai essersi dissolto per sempre: 50 veniva dal Queens e la sua storia aveva i contorni dell’orrido (aveva cominciato a spacciare a dodici anni ed era quasi passato a miglior vita con nove pallottole in corpo), ma non era soltanto la tragedia che aveva caratterizzato la sua gioventù a far esaltare pubblico e critica; oltre ad un background degno di Scarface, infatti, Jackson era capace di produrre canzoni incredibilmente orecchiabili, che i club, se avessero potuto, avrebbero suonato anche durante l’orario di chiusura.
La forza di 50 (il cui nome d’arte era ispirato da Kelvin “50 Cent” Martin, il più famoso stick-up kid di New York, attivo tra Queens e Brooklyn durante gli anni dell’epidemia del crack) era la sua capacità di stimolare ogni fetta di pubblico: se “In da Club” era confezionata appositamente per far ballare i giovani borghesi, canzoni come “Many Men” e “Heat” ricordavano al pubblico che la genesi del ragazzo era da ricercare nella strada, in quella South Side Jamaica che il Supreme Team di Kenneth McGriff, con le sue scorrerie ed i suoi traffici, aveva reso leggendaria a metà degli anni ’80.
La G-Unit arrivò in un secondo momento, ma il timing fu semplicemente perfetto: cavalcando l’onda dello straordinario consenso ricevuto da “Get Rich or Die Tryin’”, alcuni vecchi amici di 50 Cent, Lloyd Banks, Tony Yayo e Young Buck (aggiuntosi in un secondo momento e proveniente dal Tennessee), unirono le forze e consegnarono ai posteri “Beg for Mercy”, uno dei punti più alti raggiunti da quella che, sulla linea temporale della storia del rap, chiamiamo “nuova scuola”.
“Beg for Mercy” è sovente considerato il sequel di “Get Rich”, anche se una tale etichetta potrebbe erroneamente sminuirne la grandezza; rispetto al disco di debutto di 50, questo lavoro porta in scena tutta la ruvidezza dei suoi protagonisti, tramutandoli in portavoce del mondo sotterraneo, in linea con ciò che leggende come il Wu-Tang Clan ed Ice Cube, da costa a costa, avevano cercato di fare (ottimamente, tra l’altro) nel corso della loro carriera.
Tuttavia, non dobbiamo dimenticare il periodo storico di cui stiamo parlando, totalmente diverso rispetto a quando, fino alla prima metà degli anni ’90, la maggior parte degli artisti guardava agli affari extra-musicali con quasi innocente indifferenza: a fine 2003, l’hip-hop era diventato ormai un brand molto lucrativo, la famigerata “gallina dalle uova d’oro”, e chiunque – con la giusta mentalità - si sarebbe potuto arricchire all’inverosimile. In questo senso, si potrebbe dire che Master P (fondatore della No Limit Records) fu un precursore, ma la Roc-A-Fella Records di Jay-Z e Damon Dash fu senza dubbio un punto di riferimento primario: oltre a sfornare gli album di Hov (tra il 1998 ed il 2003 al top della popolarità), alla label erano legati i marchi Rocawear (dal valore commerciale di 500 milioni di dollari, nel 2005) e ROC Films, casa di produzione cinematografica che consegnò ai cinema alcune buone pellicole (“Paid in Full” con Mekhi Phifer, “State Property” e “State Property 2”).
Sulla falsariga della Roc-A-Fella, 50 Cent costituì la G-Unit Records e, da quel momento, la strada fu tutta in discesa: G-Unit Clothing Company (100 milioni di ricavi), G-Unit Films e addirittura G-Unit Books furono soltanto alcune delle realtà benedette dall’ex drug dealer del Queens, che nel 2005 (proprio mentre Jay-Z e Damon Dash erano arrivati ad un punto di rottura, decretando, di fatto, la fine della loro creatura) venne incoronato come il più geniale magnate dell’hip-hop. La stessa G-Unit Records, fino al 2007, potè vantare un roster di tutto rispetto: giovani promesse come Olivia (che fu, per un certo periodo, la first lady della G-Unit) e Hot Rod condividevano il palco con veterani del calibro di Mase, Mobb Deep e M.O.P., anche se nessuno di questi artisti fu in grado di lanciare (o rinvigorire, nel caso dei più anziani) la propria carriera. Meglio fecero i membri della G-Unit stessa, che invasero il mercato a ripetizione con dischi di ottima qualità: nell’estate del 2004 Lloyd Banks impressionò con “The Hunger for More” e Young Buck non fu da meno con “Straight Outta Cashville”, mentre l’anno seguente fu la volta di “Thoughts of a Predicate Felon”, firmato Tony Yayo.
Ciò che accadde tra la G-Unit e The Game, poi, meriterebbe un articolo a parte. Molto è stato detto e scritto sui controversi rapporti tra 50 Cent e l’(ex) ultimo figliol prodigo di Compton (prima che arrivasse Kendrick Lamar), ma tutto si può sintetizzare in poche parole: The Game non è mai stato un membro effettivo della G-Unit. In realtà, e questo è venuto fuori soltanto di recente, l’idea di associare il nome del californiano alla G-Unit fu del patron della Interscope Records, Jimmy Iovine, convinto che portare il rapper in grembo alla crew di 50 avrebbe potuto aiutarlo ad indirizzare la sua promettentissima carriera (“The Documentary” finì per essere l’unico album rilasciato su etichetta G-Unit, mentre già il seguente, “Doctor’s Advocate”, fu affidato alla Geffen). Visioni divergenti e necessità d’indipendenza spinsero The Game a scagliarsi contro i suoi ex amici (anche se l’amicizia non esplose mai veramente) al punto di varare e pubblicizzare la “griffe” G-Unot, che però fu abbandonata quando 50 Cent comprò i diritti commerciali sul nome per ostacolarne la diffusione. Da allora, tra inaspettate dichiarazioni d’amore e violenti attacchi verbali, la pace tra The Game ed il camp G-Unit non è mai stata ufficializzata, e forse mai lo sarà.
L’inizio della caduta dell’impero G-Unit è generalmente collocato nell’anno 2008, quando alcuni dissidi di natura economica tra 50 Cent e Young Buck portarono l’allontanamento di quest’ultimo dalla squadra. Nel giro di poco tempo, le interessanti iniziative lanciate qualche anno prima (di cui la G-Unit Clothing Line pareva essere la più eclatante) finirono per chiudere i battenti, e dalla stessa G-Unit Records cominciò un esodo che portò la maggior parte dei suoi artisti (tranne The Game, i Mobb Deep e Lil Scrappy) a lasciare la label senza aver prodotto nemmeno un disco.
La colpa della disfatta fu principalmente la mera sfortuna, ma gli analisti finanziari più diligenti hanno fatto notare come gli investimenti sbagliati, la poca esperienza gestionale da parte di 50 Cent e l’incapacità di reinventarsi nel tempo abbiano giocato un ruolo chiave nella perdita di potere del brand.
Attualmente, la G-Unit non è altro che una delle tante, piccole stelle che puntellano il panorama rap, sulla desolante via del tramonto: ritrovato Young Buck ma privata di quasi tutto il suo potere commerciale (lo stesso 50 Cent, una tempo percepito come un semidio, ha dichiarato bancarotta a novembre dello scorso anno), la crew di NY è sostanzialmente assente sul mercato dal giorno dell’uscita di “Beg for Mercy”, poiché tutti i progetti seguenti non hanno avuto alcun tipo d’impatto sul grande pubblico (complice la rottura del contratto di distribuzione con la Interscope, dopo la quale ha trovato casa nel circuito indipendente).
Il futuro è sconosciuto e tutto da scoprire, ma certamente resta il rammarico per ciò che la G-Unit avrebbe potuto essere e, invece, non è stata.