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  • Categoria: Back In The Dayz
  • Scritto da Klaus Bundy

David Kenner, l'avvocato del diavolo

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Nel corso della sua lunghissima e tumultuosa storia, l’hip-hop ha dato spazio a personaggi molto diversi tra loro. Alcuni di questi sono stati in grado di cambiare il gioco per sempre – sia in maniera positiva che in negativa – mentre altri hanno avuto la fortuna di cogliere il momento propizio e fare incetta di soldi e fama per un periodo relativamente breve, prima di tornare nel più totale anonimato.

Esiste un’altra categoria d’individui, tuttavia, che viene spesso ignorata, anche se il suo contributo alla causa può definirsi fondamentale: parliamo dei colletti bianchi - manager, direttori di marketing, avvocati, imprenditori ed altri – senza i quali nessuna forma d’intrattenimento a fini commerciali sarebbe accessibile al grande pubblico.

La figura che andiamo ad analizzare oggi è quella di David Kenner, soprannominato “l’avvocato del diavolo”, legale della Death Row Records e dei suoi artisti fino al 1997.

Nato più di settant’anni fa a Brooklyn (NY), David Elliott Kenner fu abilitato all’esercizio della professione di avvocato nel 1968. Trasferitosi da giovane in California, aprì uno studio legale nella piccola cittadina di Encino, e cominciò a tessere una rete di rapporti diplomatici e lavorativi che l’avrebbero visto diventare, negli anni ’80, uno dei più famosi e temuti avvocati penalisti degli Stati Uniti d’America.

L’abilità di Kenner in aula andava di pari passo con la sua sfrenata ambizione: si vantava di avere rapporti diretti con la famiglia mafiosa dei Gambino, partecipava alle feste più esclusive di Los Angeles e teneva un mitragliatore Uzi carico sulla scrivania del suo ufficio.

Di bassa statura e dal carattere spumeggiante, Kenner era conosciuto per la sua abitudine di entrare spesso in affari con i suoi clienti: i suoi modi di fare da commediante hollywoodiano e la sua competenza professionale gli spalancarono presto le porte del grosso giro della malavita, i cui maggiori esponenti facevano a gara per garantirsi la sua consulenza. Kenner, infatti, era un vero specialista degli interrogatori incrociati, attraverso i quali metteva in crisi i testimoni dell’accusa, e la sua generale aggressività e potere di persuasione risultavano spesso in un verdetto favorevole per coloro che si affidavano a lui.

Nel 1990, Kenner fu chiamato da Michael “Harry-O” Harris per un intricato caso di tentato omicidio e sequestro di persona.

Harris era un noto trafficante di droga (proveniente dalla malfamata South Central), che negli anni ’80 aveva riversato all’interno dei confini statunitensi una montagna di cocaina, facendo affari direttamente con i boss dei più importanti cartelli colombiani, tra cui Mario Villabona, con il quale aveva anche rapporti di stretta amicizia.

Harry-O aveva notato Kenner durante il processo a carico del suo amico Villabona e di Brian “Bo” Bennett, invischiati – com’era facile immaginare – in un procedimento per traffico di sostanze stupefacenti. In quel caso, l’avvocato di Brooklyn difendeva Bennett e, anche se il processo finì per concludersi con una sentenza di condanna, il padrino rimase molto colpito dalla sua attitudine spregiudicata, tanto da volerlo come difensore per il suo processo d’appello.

Fu allora che accadde ciò che avrebbe sconvolto la vita di David Kenner per sempre, permettendogli di entrare a pieno diritto nei libri di storia della cultura hip-hop contemporanea.

Nel 1991, Marion “Suge” Knight non era ancora nessuno. Dopo aver annusato l’ambiente del business musicale dalla prospettiva di bodyguard per conto del rapper The D.O.C. e degli N.W.A, il giovane ragazzone di Compton aveva intuito che la Ruthless Records di Eazy-E – la label che produceva i dischi degli N.W.A – era sull’orlo del collasso; dopo aver già perso Ice Cube, nel 1989, anche il leggendario Dr. Dre era sul punto di abbandonare la nave, stanco di non ricevere i soldi che gli spettavano per il suo contributo al successo del gruppo.

Con grande furbizia, Suge capì che Dr. Dre sarebbe stato molto stimolato dall’idea di produrre per una sua etichetta personale, slegato da obblighi contrattuali ferrei e libero di consultare i libri contabili in ogni momento avesse voluto.

Dopo aver messo in piedi una società di rappresentanza per artisti, quindi, Knight decise di calare l’asso e, sedotto dall’eroica figura di Michael Harris, cercò di mettersi in contatto con lui per strappargli un accordo economico, che avrebbe garantito la nascita della casa discografica indipendente sognata da Dre.

Il mediatore tra i due fu proprio David Kenner, il quale condusse Knight a più riprese nel penitenziario di Tehachapi, dov’era detenuto Harris, per una serie di colloqui.

Harry-O non era nuovo al mondo dello spettacolo: nel 1988, fu il primo afroamericano a produrre uno show di Broadway, “Checkmates”, che lanciò le carriere di artisti del calibro di Denzel Washington e Ruby Dee.

Harris era stimolato all’idea di tornare ad investire nello show business, soprattutto per due motivi: il primo era legato alla sua immagine, che sarebbe stata ripulita agli occhi di chi lo aveva conosciuto soltanto come uno spacciatore di droga; la seconda invece, più sentimentale, riguardava la sua compagna, un’ex cameriera di Houston, Lydia Robinson, che aveva conosciuto nel 1985 e alla quale aveva promesso una brillante carriera di cantante.

Dunque, con la garanzia di una percentuale sui proventi e l’assistenza di Dr. Dre per l’album di debutto di Lydia (che poi non sarebbe mai stato realizzato), il gangster di South Central investì 1.5 milioni di dollari nella nuova società multimediale, chiamata Godfather Entertainment, da una cui costola fu fondata la casa discografica Death Row Records.

A causa del suo status di carcerato, il nome di Harris non potè comparire nello statuto societario, motivo per cui Lydia e David Kenner figurarono come prestanome, incaricati di operare all’interno della società per suo conto.

Dopo l’uscita di “The Chronic”, la Death Row diventò un marchio riconosciuto e temuto a livello mondiale, e gli impegni dell’avvocato Kenner divennero via via più fitti ed ardui: il primo obiettivo, sulla carta, era quello di ottenere la scarcerazione di Harris, il quale era in attesa di una sentenza di appello sul sopracitato caso di tentato omicidio e sequestro; il secondo, relativo al suo ruolo di avvocato della label, era quello di stipulare i contratti di esclusiva con gli artisti e negoziare con i distributori, tra i quali c’erano colossi come la Time Warner e la Interscope Records di Jimmy Iovine e Ted Field. Un ulteriore incarico di Kenner riguardava la difesa giudiziaria dei rapper della Death Row: molti di questi avevano gravi pendenze con la giustizia, ed il telefono dell’avvocato residente ad Encino squillava in continuazione, a qualsiasi ora del giorno e della notte, tampinato da richieste di consulenza.

Il caso più eclatante, soprattutto a livello mediatico, fu quello che coinvolse Snoop Doggy Dogg, a pochi mesi dall’uscita dell’album di debutto di quest’ultimo, l’acclamatissimo “Doggystyle”, che uscì nel settembre del 1993.

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Snoop era accusato di omicidio nei confronti di un giovane delinquente di origine etiope, il poco più che ventenne Philip Woldemariam, freddato da alcuni colpi di pistola sul prato del Woodbine Park, nell’elegante quartiere di Palms, a Los Angeles.

Woldemariam aveva avuto qualche screzio con Dogg ed il suo entourage un paio d’ore prima della sparatoria, ed i fori di proiettile sulla schiena e sulle natiche della vittima lasciavano intendere che l’impianto difensivo orchestrato da Kenner, basato sulla legittima difesa, non potesse reggere. Invece, quando il processo arrivò alla sua conclusione, nel febbraio del ’96, il giudice reputò sia Snoop che il suo bodyguard, McKinley Lee, non colpevoli, assolvendoli con formula piena da ogni accusa.

L’assoluzione di Snoop Dogg nel caso Woldemariam fu un successo straordinario ed insperato per David Kenner, nei cui conti bancari, nel giro di pochissimi anni, fu erogata una cifra intorno ai 60-70 milioni di dollari. Nessuno, in effetti, credeva che il giovane rapper di Long Beach se la sarebbe cavata, e l’attesa condanna all’ergastolo aveva portato pure la Interscope a tentennare sulla possibilità di distribuire “Doggystyle”, convinta che il ragazzo sarebbe marcito dietro le sbarre.

Anche l’approdo di Tupac Shakur alla Death Row Records fu un autentico capolavoro di Kenner.

Rinchiuso per stupro presso il Clinton Correctional Facility di New York dal 30 novembre 1994, Tupac era in attesa del processo d’appello, ma non aveva i soldi necessari a pagare la cauzione da 1.4 milioni di dollari che gli avrebbero garantito la libertà vigilata.

Suge Knight, sull’altra costa, ebbe l’intuizione che portare Shakur in terra californiana avrebbe dato ulteriore lustro al marchio Death Row, e si rivolse a David Kenner per rendere questo sogno una realtà.

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Così, Kenner volò a New York con Knight, e le parti stipularono un accordo (denominato “Dannemora Agreement”) che, quando fu reso pubblico, lasciò perplessi gli esperti del settore: Kenner fece firmare a Tupac un documento che lo designava come suo avvocato, mentre Suge sarebbe stato il suo manager; furono garantiti degli anticipi (sotto forma di prestiti), più una percentuale sulle vendite dei futuri dischi (due album di inediti ed una raccolta) come bonus per i buoni risultati conseguiti.

Questo accordo, di fatto, privava Tupac di ogni tutela (se il manager ed il proprietario dell’etichetta sono la stessa persona, dove sta la negoziazione?), e ciò che il contratto non accennava era che l’artista non aveva il diritto di consultare i registri per monitorare i soldi in entrata ed in uscita, motivo per cui – al momento della sua morte – il rapper aveva soltanto poco più di 100 mila dollari in banca, e nessun bene intestato (gli furono addebitate cifre folli, come gli alimenti per il figlio di Nate Dogg e l’affitto della villa di Kenner a Malibu).

La stessa cauzione per ottenere la libertà di Tupac fu, in realtà, pagata attraverso una fitta rete di accordi presi dalla Death Row con altri giganti del settore discografico: la Interscope versò 250 mila dollari, l’Atlantic Records ne versò altri 850 mila, mentre i restanti 300 mila dollari furono garantiti allo stato di New York attraverso la formula del bail bond, una sorta di tassa mensile – a carico di Tupac, ovviamente – sul modello delle tradizionali rate.

Atlantic ed Interscope accettarono di accollarsi parte delle spese per la cauzione di Shakur soltanto in cambio della cessione dei diritti d’autore ricavati dalle vendite dei dischi che il rapper avrebbe prodotto per conto della Death Row, ma gran parte dei fans crede ancora – a torto – che sia stato Suge Knight il “’salvatore” che consegnò la libertà al giovane. In realtà, come visto, fu tutta una geniale e diabolica strategia messa in piedi dalla furba mente di David Kenner, e queste verità sono venute a galla soltanto dopo la morte di Tupac, quando la madre Afeni fece causa alla Death Row per aver derubato senza ritegno il figlio durante l’ultima parte della sua vita.

Tupac, contrariamente a quanto mostrato davanti alle telecamere, non amava l’atmosfera che si respirava negli uffici della Death Row, al 10900 di Wilshire Boulevard (Beverly Hills), ed in particolar modo non si fidava di Kenner, il quale fu infatti licenziato negli ultimi giorni di agosto del 1996, dopo che quest’ultimo aveva cercato d’impedirgli di prelevare alcuni demo dagli archivi della label.

Dopo la morte di Tupac, avvenuta tragicamente il 14 settembre 1996, David Kenner si ritrovò ad affrontare l’ultima, difficile sfida: la notte del 7 settembre, poche ore prima del drive-by che l’avrebbe ucciso, Shakur partecipò, insieme a Suge Knight ed altri membri della Death Row, al pestaggio di Orlando Anderson, un rappresentante dei Southside Crips che, nell’aprile di quell’anno, aveva rapinato un impiegato della label, togliendogli dal collo il famoso pendaglio d’argento raffigurante il logo della compagnia.

Knight, in quel momento, si trovava in regime di libertà vigilata, e quel pestaggio sarebbe stato sufficiente per una revoca, con conseguente condanna al carcere. Kenner le provò tutte, compresa la corruzione di Anderson (il quale sarebbe rimasto ucciso in una sparatoria, nel maggio del ’98), ma ogni tentativo fu inutile, e nel febbraio del 1997 si aprirono per Suge le sbarre del penitenziario, dietro le quali sarebbe rimasto fino al 2001.

Dal momento della condanna di Knight, David Kenner sparì letteralmente dalla circolazione: quando i giornali californiani tornarono ad occuparsi di lui, nel 2003, fu solo per notificare la sua temporanea revoca della licenza da avvocato, a causa di alcune infrazioni fiscali ed altri illeciti; l’anno seguente, poi, l’ormai sessantenne penalista chiamò a sé il giovane avvocato Brett Greenfield, con il quale ancora oggi condivide le attività del suo studio legale.

Non si sa con esattezza quando Kenner si sia licenziato dalla sua prestigiosa posizione in seno alla Death Row, ma è molto probabile che l’abbia fatto in seguito alla condanna di Suge Knight del ‘97, la quale, di fatto, ha segnato la fine definitiva dell’impero.

Oggi, l’anziano avvocato esercita ancora la professione nel suo fatiscente studio legale, ad Encino. Pochi, a dire il vero, si ricordano di lui, e fa molta impressione credere che un uomo così sconosciuto alle platee più nutrite sia stato l’autentico burattinaio dietro la storia della casa discografica più potente di tutti i tempi. Negli anni, la seduzione data dai soldi e dal potere della Death Row devono averlo confuso, ed è stato anche a causa della sua poca lucidità se, nel giro di poco tempo, l’intero castello è crollato miseramente: l’uomo che avrebbe dovuto semplicemente tirar fuori di galera Michael Harris il prima possibile si era trasformato in un regista occulto, pronto a schierarsi dalla parte del più forte per garantire la propria sopravvivenza. Quando, infatti, Harris cominciò ad esprimere malumori nei confronti della sete di notorietà di Suge Knight, Kenner scelse di stare con quest’ultimo, convinto che l’autorità di Suge non sarebbe stata messa in pericolo da un uomo che, in fin dei conti, si trovava chiuso in una cella. Harris, tuttavia, aveva dalla sua parte la moglie Lydia, e fu proprio lei a riferire al marito che Knight si stava prendendo tutti i meriti per la fondazione della label e che, sottobanco, Kenner aveva redatto un altro statuto societario, nel quale Harris, di fatto, veniva tagliato fuori dagli affari.

Come disse in seguito Harry-O: “David e Suge cercarono di far fuori l’uomo che li aveva fatti conoscere”.

Di recente, David Kenner è stato rivisto – molto debilitato, con il viso tumefatto dalla chirurgia plastica ed una vistosa dentiera – al fianco di Suge Knight, arrestato lo scorso anno per un presunto caso di omicidio colposo; qualche mese fa, tuttavia, è stato sollevato dalla sua carica di difensore, in favore dell’avvocato Stephen L. Schwartz.

Tutti i suoi segreti, probabilmente, finiranno con lui nella tomba.

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Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).