- Categoria: Back In The Dayz
- Scritto da Klaus Bundy
La tragica storia di Robert "Yummy" Sandifer
Yummy era semplicemente troppo giovane.
Nello spietato mondo suburbano di quell’America che fa della democrazia e della libertà dei popoli una propria bandiera, esistono delle vicende sommerse che ci costringono alla riflessione. L’hip-hop attinge da questo serbatoio sin dalla notte dei tempi, ed è forse grazie ad esso che il pendolo della coscienza comune, talvolta, è stato in grado di oscillare nel modo in cui dovrebbe.
Purtroppo, comunque, questo non accade abbastanza spesso, e la triste storia che andremo a raccontare oggi, pur immortalata nei suoi aspetti più tragici da qualche storico e cantastorie del movimento nero (tra cui un gigante come Tupac), rappresenta in pieno il dramma della consuetudine.
Siamo nella Chicago dei primi anni ’80 e, dall’unione tra Lorina Sandifer e Robert Atkins, viene alla luce Robert.
Al momento della nascita del pargolo, il padre si trovava in carcere con una condanna all’ergastolo, mentre Lorina era nota nel quartiere in cui viveva per essere una giovane sbandata, con un nutrito curriculum di arresti (oltre 30), la maggior parte dei quali legati allo spaccio di droga nel famigerato South Side della “Windy City”, a Roseland.
Come tantissime altre realtà americane, Roseland cominciò la sua discesa all’inferno negli anni ’60, quando il declino economico portò alla chiusura delle fabbriche che occupavano la maggior parte della popolazione, lasciando allo sbando decine di migliaia di famiglie, all’80% di colore.
La povertà spalancò presto le porte alla violenza e, nel 1983 – anno di nascita di Robert Sandifer – il tasso di omicidi, rapine e soprusi di vario genere era al suo massimo storico.
Abbandonato al suo destino quand’era ancora in fasce, il piccolo Robert conobbe un’infanzia traumatica: trasferito a 3 anni dai servizi sociali presso l’abitazione della nonna materna, visse in un contesto caotico, ammassato in una casetta senza pretese con un’altra ventina di sventurati bambini della sua età, di fatto orfani della fondamentale presenza di genitori responsabili; in quel periodo, infatti, il ragazzino iniziò a manifestare il rifiuto per l’autorità, e nemmeno la nonna – nemmeno troppo attenta, a dire il vero - riuscì a fermarlo dal commettere i suoi primi crimini, che all’epoca consistevano nel rubare automobili e svaligiare appartamenti.
Robert fu dunque trasferito ancora, questa volta al rifugio Lawrence Hall DCFS del North Side di Chicago, ma non ci rimase a lungo: nel 1993, a soli 10 anni, decise di scappare, vivendo di espedienti.
Nonostante il suo soprannome fosse “Yummy” - una forma onomatopeica per descrivere il suo amore per i biscotti - Robert era letteralmente uno spietato killer nel corpo di un infante: assoldato dai Black Disciples di David Barksdale (fondatore della gang, morto per cause naturali nel 1974), si fece notare dalla polizia locale per ben 23 reati, più altre 5 infrazioni minori. A causa della sua giovanissima età, ogni giudice chiamato a giudicarlo si trovò con le mani legate, non potendolo assicurare a nessun istituto penitenziario, nemmeno minorile.
In parole povere, il sistema giudiziario a stelle e strisce non aveva previsto un personaggio come lui.
Com’è già capitato di dover dire parecchie volte nella nostra rubrica per questo tipo di figure, Robert non era destinato a durare: se un bambino di soli 10 anni, invece di giocare con i suoi coetanei al parco, possiede un’arma da fuoco e passa il suo tempo a fare rapine per conto di una gang, significa che non solo la politica sociale di uno Stato, ma l’intera umanità – ed il suo controverso modo di concepire il suo ecosistema – ha fallito miseramente.
Il 28 agosto 1994, un giorno come tanti, Robert scese in strada con la solita, angosciosa determinazione di chi non ha nulla da perdere. Dopo aver girovagato per le strade del suo quartiere per un po’, il bambino si diresse verso un piccolo parco della zona, dove alcuni ragazzini stavano giocando a football. Fu allora che estrasse la sua calibro 9 e la puntò verso il gruppo, forse per assolvere un rito d’iniziazione criminale, com’è stato suggerito in seguito, o forse soltanto per dare libertà alla sua vena più sadica e spietata.
Uno dei proiettili sparati dalla sua pistola, però, colpì ed uccise accidentalmente Shavon Dean, una ragazzina di soli 14 anni, che nulla aveva a che fare con il mondo della microcriminalità.
La morte di Shavon divenne subito un caso nazionale di cui s’interessarono tutti i maggiori network e le più note testate giornalistiche americane, e la polizia tornò a mettersi sulle tracce di quell’irrequieto ragazzino che già aveva imparato a conoscere fin troppo bene.
I Black Disciples, però, non stettero a guardare.
Non si sa chi prese la decisione di togliere dalla circolazione Robert, ma il movente è di facile intuizione: dal momento che una sua eventuale cattura ed arresto per un reato così grave avrebbe potuto trasformarlo in uno scomodo informatore, non si poteva permettere che il destino di un esercito di giovani soldati della malavita dipendesse dall’integrità morale di un fanciullo di 11 anni. Si rese quindi necessario affrontare la questione nell’unico modo conosciuto a quei soggetti: l’omicidio.
Il 31 agosto, ormai braccato dagli agenti, Robert Sandifer fu avvicinato da Cree e Derrick Hardaway, di 16 e 14 anni, che con Robert condividevano la sbandata vita da strada. Con la scusa di portarlo in un posto sicuro, i fratelli Hardaway dissero al piccolo di salire a bordo di una macchina, che lo stava aspettando nella zona. Purtroppo per lui, però, su quell’auto erano in attesa dei sicari dei Black Disciples, che caricarono Robert e lo portarono nei pressi di un tunnel, oggi smantellato, dentro il quale lo fecero inginocchiare, prima di ucciderlo a sangue freddo con due colpi di pistola, entrambi alla nuca. La polizia scoprì il corpo senza vita il giorno seguente, alle prime luci dell’alba del 1° settembre.
Ai funerali di Robert, tenutisi allo Youth Center Church of God in Christ, nel Northwest Side di Chicago, si presentò una folla di circa 450 persone: Robert era ormai diventato famoso per l’assassinio di Shavon Dean, e la sua fama era stata resa ancora più sinistra ed “invitante” agli occhi dell’opinione pubblica per via della sua giovanissima età al momento della morte, 11 anni e mezzo.
“Sono qui per mostrare a mio nipote che cosa succede se si entra a far parte di una gang”, dichiarò una signora ai giornalisti del New York Times, nel giorno dell’ultimo saluto a Robert. “C’è un bambino in quella bara e sono spaventata tantissimo per il mio”.
“Un bambino come Robert Sandifer stava cercando disperatamente qualcuno che lo aiutasse”, spiegò al Times Paul Mones, un avvocato californiano specializzato nella difesa di bambini accusati di omicidio. “E’ stato lasciato da solo, e questo tipo di comportamento da parte delle famiglie e dello Stato equivale a giocare con il fuoco. Viviamo in un paese che spende miliardi di dollari per il mantenimento dei detenuti, ma per l’educazione dei nostri figli investe soltanto noccioline”.
Poche settimane dopo l’uccisione di Robert, il Time Magazine scelse la sua foto segnaletica – una delle sue uniche foto conosciute – per la copertina del numero. Su uno sfondo nero, contornato di rosso, il volto scuro di Robert troneggiava al centro della pagina, ed il titolo riportava le seguenti parole:
“La breve e violenta vita di Robert ‘Yummy’ Sandifer: troppo giovane per uccidere, troppo giovane per morire”.