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- Scritto da Klaus Bundy
La storia del Black Panther Party (2° parte)
Ad una sola manciata di anni dalla sua fondazione, l’America si accorse improvvisamente che le Pantere Nere stavano diventando importanti, forse troppo.
Con lo spirito di iniziativa mirato alla salvaguardia del benessere degli afroamericani (fu celebre l’apertura delle mense per la colazione dedicata ai bambini di Oakland, servite prima della scuola) e la sfrontata condotta nei confronti dell’ordine costituito, il Black Panther Party si propose come il più temibile movimento in difesa della fazione di colore degli Stati Uniti, e quindi la più pericolosa minaccia alla stabilità politica e sociale del paese, come sarebbe stato più volte definito negli anni successivi alla sua scomparsa.
Nel 1967, la California si affrettò ad approvare il Mulford Act, che bandiva la possibilità dei cittadini – fino a quel momento sacrosanta – di portar con sé armi per strada.
Apparentemente, potremmo pensare che questa legge fosse necessaria, soprattutto in virtù dell’altissimo tasso di criminalità che, in quel periodo, stava decimando la popolazione californiana; tuttavia, è bene notare che essa fu scritta da Don Mulford e firmata da Ronald Reagan (all’epoca Governatore dello Stato e, circa un decennio dopo, Presidente degli Stati Uniti), due politici repubblicani e conservatori, facenti quindi parte di quel ramo della politica americana che, storicamente, difende con vigore il Quinto Emendamento, relativo al libero possesso di armi da fuoco per difesa personale.
La verità, dunque, è che le scorribande notturne di Huey Newton e dei suoi militanti stavano mettendo a dura prova il meschino operato della polizia - costretta spesso alla fuga dal BPP quando pizzicata a molestare degli innocenti cittadini di colore – ed era necessario tamponare il problema.
Dal punto di vista numerico, però, il movimento continuava a crescere, grazie anche all’efficace attività propagandistica del giornale The Black Panther Party, sul quale il vignettista Emory Douglas era solito ritrarre i poliziotti sotto forma di maiali, “pigs”, un dispregiativo che sarà poi utilizzato ampiamente nella cultura hip-hop per definire le forze dell’ordine corrotte.
Fu verso la fine degli anni ’60 che, quindi, il nuovo governo di Richard Nixon (che salì alla Casa Bianca nel 1968) intuì il bisogno di un’azione più capillare per distruggere le Pantere.
Il direttore dell’FBI dell’epoca, J. Edgar Hoover, attivò i suoi uomini più validi per mettere in atto il programma di controspionaggio COINTELPRO (Counter Intelligence Program), un infame programma di infiltrazione che ebbe come vittime anche il CPUSA (il Partito Comunista americano), l’AIM (American Indian Movement) ed addirittura lo stesso Ku Klux Klan.
Nelle fasi preliminari dell’operazione, la giustizia iniziò a spianare il terreno per le successive mosse dell’FBI: Bobby Seale, il presidente del Black Panther Party, fu condannato per “incitamento alla sommossa” a 4 anni di carcere, nel 1967; l’anno successivo, Eldridge Cleaver, ideologo del braccio armato del movimento e ricercato per tentato omicidio, scappò in Algeria; Huey Newton, accusato della morte di un poliziotto che non aveva ucciso, ricevette anch’egli una condanna a 4 anni, che lo avrebbe liberato soltanto nel 1970.
Senza i suoi uomini-chiave al timone, il BPP fu lasciato nelle mani di David Hilliard, il quale non poté far nulla di fronte alla sfrontata manovra di soppressione messa in atto dall’FBI.
Per sferrare il colpo fatale all’organizzazione, Hoover decise di puntare sulle tre città che per le Pantere rappresentavano di più in termini di magnetismo sociale e rilevanza politica: Oakland, Chicago e New York.
Ad Oakland, il COINTELPRO si concentrò principalmente sull’invio di false lettere, il cui scopo era quello di mettere i capi del movimento uno contro l’altro; alla sede del movimento furono recapitati centinaia di scritti, apparentemente autentici, i quali suggerivano che Newton, dal carcere, stava rischiando di essere tagliato fuori da Cleaver, mentre quest’ultimo, dal suo esilio ad Algeri, fu erroneamente informato che Newton lo avrebbe espulso quanto prima dal BPP, colpevole di essersi appropriato indebitamente di fondi destinati alle attività solidali del partito ed altre vergognose scelleratezze.
A Chicago, la polizia riempì di pallottole Fred Hampton, 21 anni, il guru del BPP nel Midwest: gli agenti testimoniarono di aver fatto fuoco, durante un raid notturno nell’appartamento di Hampton, poiché questi – insieme alle Pantere che abitavano con lui – avrebbe iniziato a sparare per primo, sottintendendo un omicidio per legittima difesa. Peccato che, dall’analisi della scena del crimine e dalle prove balistiche, risultò poi che Hampton fu colpito mentre stava dormendo (probabilmente volutamente narcotizzato da qualche infiltrato dell’FBI), e nessun proiettile riconducibile alle armi detenute dagli abitanti dell’appartamento fu rinvenuto dagli investigatori, contro i novantaquattro colpi sparati dalla polizia.
Nell’aprile del 1969, infine, un ennesimo atto di calunnia perpetrato dall’agenzia di Hoover portò 21 militanti delle Pantere di New York alla sbarra (tra cui la madre di Tupac Shakur, Afeni), nel processo che passò alla storia come “Panther 21”: questi furono accusati della pianificazione di attacchi dinamitardi contro edifici pubblici della città, in tre distretti diversi (Bronx, Manhattan e Queens), e per i quali furono formulati 156 capi d’accusa. Il processo – durato oltre otto mesi, il più costoso nella storia dello Stato di New York – si concluse in un nulla di fatto, ma l’immagine del Black Panther Party ne uscì comunque fortemente indebolita.
Nel settembre del ’70, Newton uscì finalmente di galera, ma la retorica astratta dei suoi discorsi e l’incapacità nelle vesti leader non permisero al suo movimento di rialzare la testa e tornare ai fasti di qualche anno prima; a ciò si aggiunse la rottura definitiva con Cleaver, che da Algeri sperava ancora in un’azione di tipo militaristica da parte del movimento, contro un inedito atteggiamento da parte di Newton, che molti interpretarono come eccessivamente mansueto e remissivo verso le autorità. Cleaver fece i suoi proseliti, e Newton si ritrovò a scomunicare molti dei suoi seguaci, tra cui figuravano gli attivisti coinvolti nel “Panther 21” e Geronimo Pratt, un alto comandante del BPP che passò quasi trent’anni in carcere per sequestro ed omicidio e che fu il padrino di Tupac.
Dilaniato dall’azione dell’FBI e dai dissidi interni, il Black Panther Party cessò di esistere ufficialmente nel 1982, quando l’ultima sopravvissuta tra le attività sociali promosse dal movimento, l’Oakland Community Learning Center – una scuola elementare – fu costretta a chiudere i battenti per mancanza di fondi.
Il 22 agosto 1989, ormai abbandonato anche dai suoi compagni più fedeli, Huey Newton fu ucciso a West Oakland, in Center Street, da un giovane membro del BGF (Black Guerilla Family), uno dei tanti movimenti per i diritti civili che orbitavano intorno al ben più celebre BPP, e nel quale anche molte ex Pantere entrarono, una volta persa la fiducia nel capo.
Newton, ormai ultraquarantenne, stanco e vittima della dipendenza dal crack, affrontò il suo carnefice a viso aperto, rispolverando negli ultimi istanti di vita il vecchio spirito da guerriero che lo aveva portato ad essere il più importante pensatore afroamericano dai tempi di Malcolm X.
Le sue ultime parole, prima di essere ucciso, furono: “Puoi uccidere il mio corpo e togliermi la vita, ma non potrai mai uccidere la mia anima. La mia anima vivrà per sempre!”.