- Categoria: Back In The Dayz
- Scritto da Klaus Bundy
Illmatic di Nas: riflessioni su un capolavoro, 22 anni dopo
22 anni fa, più precisamente il 19 aprile 1994, la casa discografica Columbia mandò ai negozi l’album di debutto di un ragazzino del Queensbridge, appena diciannovenne, destinato a diventare presto una delle più luminose leggende dell’hip-hop: quell’album si chiamava “Illmatic” e quel ragazzino era Nas.
Sull’importanza storica e culturale di “Illmatic” si è praticamente detto tutto: come se i critici non avessero già fatto un encomiabile lavoro di analisi, il 2014 è stato l’anno di uscita di “Time Is Illmatic”, geniale documentario confezionato appositamente per celebrare il ventennale dalla pubblicazione del disco, un mezzo miracolo cinematografico che ha molto da insegnare alla nuova e disattenta generazione di proseliti del rap.
“Illmatic” non è soltanto uno straordinario esempio della forza narrativa del suo autore; la vera grandezza di questa gemma risiede nella sua capacità di aver riscritto alcuni canoni della musica di strada afroamericana e di aver giocato un ruolo fondamentale nella cosiddetta “East Coast Renaissance”.
Da un punto di vista puramente tecnico, Nas fu tra i primissimi artisti a dotarsi di una vasta gamma di produttori, con il risultato di dare al suono del disco un’impronta eterogenea, multicolore, rendendo quindi ogni traccia un’insostituibile esperienza autonoma.
Fino a quel momento, infatti, i più grandi esponenti del rap di entrambe le coste avevano deliberatamente scelto di contare sul talento dei propri produttori di fiducia: i Boogie Down Productions si affidavano a DJ Scott La Rock, gli N.W.A avevano Dr. Dre, il Wu-Tang Clan fece il botto con le melodie rozze di RZA, la Bomb Squad si occupava del sound aggressivo dei Public Enemy, ecc.
In questo senso, Nas optò per un’inversione di marcia, cercando di chiamare a sé quei produttori che, secondo la sua idea, meglio avrebbero potuto integrarsi con le sue sorprendenti liriche. E’ questo il motivo per cui, scorrendo l’elenco dei nomi accreditati alla produzione, troviamo mostri sacri del calibro di DJ Premier (“N.Y. State of Mind”, “Memory Lane (Sittin’ in da Park)”, “Represent”), Large Professor (“Halftime”, “One Time 4 Your Mind”, “It Ain’t Hard to Tell”), Pete Rock (“The World Is Yours”) e Q-Tip (“One Love”), ognuno evidentemente al top della propria ispirazione artistica.
Il frutto di questa scelta in controtendenza, insieme all’enorme successo ottenuto dal disco, fu un rinnovato trend nel panorama hip-hop mainstream e non, per il quale i rapper cominciarono a chiamare a sé i produttori più disparati, rendendo così la diversificazione dei beat all’interno dello stesso progetto una rinnovata ricetta per l’approvazione da parte del pubblico.
Accanto a questa rivoluzionaria innovazione, poi, c’è da sottolineare la statura di “Illmatic” all’interno del contesto storico in cui venne pubblicato.
Dall’uscita di “Straight Outta Compton” (1988) a “Doggystyle” (1993), la West Coast aveva messo in atto un cambio generazionale che aveva praticamente spazzato via ogni iniziativa di rilancio da parte dell’Est: dopo “Paid In Full” (1987) ed il politico “It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back” (1988), il rap di New York sembrava diventato incapace di stare al passo con la freschezza proposta dalla controparte losangelina, ed il dominio totale della giovane Death Row Records (che, dal ’95, si sarebbe anche assicurata le prestazioni di Tupac, il quale non fu mai davvero la voce di NY, nonostante fosse nato ad East Harlem) lasciava presagire un monopolio incontrastato sul mercato di prima fascia.
L’album di debutto del Wu-Tang Clan, “Enter the Wu-Tang (36 Chambers)” (1993), lasciò intravedere uno spiraglio di rinnovata ribalta per la costa atlantica, ma è con “Illmatic” che i giochi furono totalmente riaperti, finché l’irruzione sulla scena di The Notorious B.I.G. con il biblico “Ready to Die” (pubblicato cinque mesi dopo il disco di Nas, nel settembre del ’94) contrappose in modo definitivo e finalmente bilanciato la famiglia della Bad Boy di Puff Daddy a quella della Death Row di Suge Knight, dando il via al famigerato bombardamento giornalistico che fece appassionare tutti alla “faida” East vs. West.
La cosiddetta “East Coast Renaissance” (letteralmente, “la Rinascita della Costa Est”) è un breve periodo storico che abbraccia in pieno l’epoca d’uscita di “Illmatic”, e fu proprio Nas a trasformarsi, quasi inconsapevolmente, in uno di quei personaggi di punta che avrebbero dovuto difendere il buon nome del rap “puro”, quello newyorkese, agli occhi dell’America e di tutto il mondo.
Per capire se la missione fu compiuta, basta vedere l’eredità lasciata dal long playing: ognuna delle nove tracce presenti nel disco è entrata di diritto nella lista dei classici del genere, grazie alla già citata perspicacia melodica e all’incredibile visione poetica di Nas, ancora innovativo attraverso la sua sintassi cruda e al contempo suggestiva, in grado di arrivare con estrema facilità di comprensione sia all’uomo del ghetto che al giovane borghese.
La grandezza di “Illmatic” sta tutta qui, e scusate se è poco: un cammino ascetico negli angoli più malfamati del Queensbridge dei primi anni ’90, in compagnia di Nas, il quale – come Virgilio fu per Dante ne “La Divina Commedia” – veste i panni della guida spirituale e ci accompagna tra le vie di una dimensione contradditoria, fatta di una cinica violenza che va a braccetto con l’agrodolce estetica della poesia urbana.