- Categoria: Back In The Dayz
- Scritto da Klaus Bundy
Aquemini degli OutKast diventa maggiorenne: analisi di un'opera ''diversa''
Sarebbe bello, almeno per una volta, poter parlare di hip-hop nella sua forma migliore, elogiarlo e guardarne gli aspetti più brillanti, anche a costo di dover portare indietro di molto le lancette dell’orologio.
Quale miglior occasione per celebrare il più splendente esempio di musica rap, quindi, se non il diciottesimo anniversario dall’uscita di “Aquemini” degli OutKast?
Nonostante la scena del Sud verta oggi in condizioni – ad esser gentili – penose, un po’ dona speranza accorgersi che proprio in questa fetta degli Stati Uniti fu concepito uno dei migliori album, non solo della storia hip-hop ma anche di quella della musica in generale, inserito nel 2005 – tra l’altro - dal magazine Rolling Stone nella lista dei “500 Migliori Dischi di Tutti i Tempi”.
Nel 1998, anche se in fase calante, lo stile “gangsta”, “hardcore” e – in gergo prettamente italico – “sbruffone” era ancora considerato la prassi per ogni disco che meritasse un minimo di attenzione presso la comunità; le fabbriche della Bad Boy e della Death Row avevano messo il sigillo sul lavoro iniziato a fine anni ’80 dagli N.W.A, ed erano ben poche (nonché coraggiose) le mosche bianche che si permettevano di vociare fuori dal coro.
Gli OutKast, per genetica, non avrebbero mai potuto far parte di quella sinistra fucina: se con il primo album, “Southernplayasticadillacmuzik” (1994), André 3000 e Big Boi avevano fatto almeno un minimo sforzo per “apparire come gli altri”, già a partire da “ATLiens” (1996) era ormai chiaro che quella strana coppia proveniente dalla Georgia non avesse nulla da spartire con le pistole fumanti osannate fino alla morte da Tupac e Biggie.
“Aquemini”, pubblicato il 29 settembre 1998, completa una metamorfosi che il duo – ed André, in particolare – aveva intrapreso con il long playing precedente; una metamorfosi sia stilistica che spirituale perfettamente sintetizzata nelle sedici tracce che compongono l’opera, nella quale l’approccio futuristico ed introspettivo prende il sopravvento, diventando quindi lo specchio dell’anima dei suoi autori.
Un paio d’anni prima, infatti, lo stravagante André si era legato sentimentalmente alla cantante soul Erykah Badu, dalla quale ebbe un figlio e grazie al cui aiuto era stato in grado di mutare nel modo di vivere e pensare, diventando così un salutista vegetariano, non più dedito alla vita di strada e al consumo di marijuana, ma pieno di energia positiva e consapevole del proprio fuoco sacro artistico.
Il risultato di questo processo è un capolavoro che tocca le vette dell’epica, probabilmente il primo disco hip-hop a non essere soltanto costituito da una lista di canzoni, bensì pensato per proiettare l’ascoltatore in una dimensione cinematografica, di kubrickiana memoria, tappezzata al contempo di consapevolezza e surrealismo onirico.
Le improvvisate jam sessions in studio – innovative in campo hip-hop, e dalle quali venne fuori buona parte della musica prodotta – si assunsero il compito di portare quella libertà creativa che inserisce l’album in un contesto prettamente sperimentale, impossibile da datare, con tanti anni d’anticipo rispetto a lavori ibridi come “808s & Heartbreak” (2008) di Kanye West e soprattutto “To Pimp a Butterfly” (2015) di Kendrick Lamar.
La prova al microfono di André e Big Boi, poi, è semplicemente superlativa, forse meno pregna del tecnicismo sintattico presente in “ATLiens” ma più efficace dal punto di vista dei contenuti, i quali toccano vette inarrivabili di estasi creativa (“Liberation”) e coscienza sociale (“Da Art of Storytellin’ (Part 1)”), sterzando quindi verso trame apocalittiche (“Da Art of Storytellin’ (Part 2)”) e sociologiche (“SpottieOttieDopaliscious”), senza comunque trascurare temi cari al rap tradizionale, come l’amore per la terra di origine (“West Savannah”) e la spacconeria più maschia (“Skew It On the Bar-B”, insieme a Raekwon del Wu-Tang Clan).
L’eredità di “Aquemini”, a quasi due decadi di distanza, lascia purtroppo un certo amaro in bocca: troppi imitatori a buon prezzo si sono succeduti sul grande palcoscenico hip-hop “made in USA”, troppa feccia è venuta fuori dalle strade di Atlanta e troppo pochi sono stati gli artisti in grado di sfoggiare un’originalità che fosse anche minimamente commensurabile alla rivoluzione di cui gli OutKast si sono fatti portavoce, ma è forse su questo particolare punto che dovremmo concentrare la nostra analisi: se, dall’uscita di “Aquemini” ad oggi, nessun osservatore sano di mente ha avuto il coraggio di fare paragoni, è perché evidentemente non ci sarà mai un altro André 3000, così come non ci sarà mai un altro Big Boi, due eccellenti bohémien, simbiotici quanto atipici, creatori di opere d’inestimabile valore culturale, che occupano un posto d’onore nel grande pantheon dell’hip-hop.