facebook  twitter  vimeo  YouTube  

Menu
  • Categoria: Back In The Dayz
  • Scritto da Klaus Bundy

Apre a Washington il primo museo di storia afroamericana: un richiamo alla responsabilità

Primo_museo_storia_afroamericana

Ieri, in presenza del presidente Barack Obama e di sua moglie Michelle – visibilmente commossa -, le porte del Smithsonian National Museum of African American History and Culture (NMAAHC) si sono ufficialmente aperte nella città di Washington, D.C., al termine di un’imponente gestazione cominciata nel lontano 2003, sotto la controversa presidenza di George W. Bush.

Proprio Bush, repubblicano ed ex governatore di uno Stato abbastanza ostile alla causa dei neri d’America come il Texas, ha partecipato alla cerimonia d’apertura, prendendo anche la parola e sottolineando che il museo ispirerà certamente la nazione nella sua ricerca di una giustizia “più giusta”, facendo quindi un non troppo vago riferimento ai clamorosi recenti casi di omicidio che hanno coinvolto le forze dell’ordine a danno di inermi cittadini di colore.

Obama, che tra meno di due mesi saprà il nome di chi prenderà il suo posto alla Casa Bianca, ha approfittato dell’occasione per ribadire alcuni concetti sacrosanti che, in qualità di primo presidente nero nella storia degli States, non avrebbe potuto d’altronde evitare.

Noi non siamo un peso sulle spalle dell’America, o un motivo di vergogna e peccato per questo paese”, ha detto il presidente. “Noi siamo l’America. Una vetrina sulla nostra storia ci renderà più consapevoli, e ci permetterà di scrollarci di dosso tante delle menzogne che sono state dette in tutti questi secoli. E’ per via di ciò che abbiamo subìto in passato che dobbiamo trovare la motivazione collettiva per fare di questa nazione un posto più equo. E’ la storia americana e questo museo è qui a ricordarcela. Una storia di sofferenza e delizia, di paura ma anche di speranza”.

L’apertura del NMAAHC arriva a conclusione di lunghe ed estenuanti battaglie: già nel 1915, quando la segregazione ancora prosperava per la gioia di chi non s’era rassegnato alla fine dello schiavismo, i veterani afroamericani del primo conflitto mondiale avevano cercato con vigore di immortalare la loro esperienza attraverso un memoriale permanente, come una sorta di santuario, ma il benestare per i lavori sarebbe arrivato soltanto quasi un secolo più tardi, con la firma del già citato Bush, la cui permanenza nell’edificio bianco di Washington non si sarebbe comunque distinta per solidarietà ed apertura verso il popolo di MLK e Malcolm X.

La struttura, costata mezzo miliardo di dollari, è divisa in tre sezioni distinte (storia, comunità e cultura) ed ospita un totale di trentasettemila oggetti d’esposizione, ottenuti attraverso donazioni private, tra cui il vestito indossato da Rosa Parks prima del suo arresto a Montgomery e la bara di Emmett Till, il ragazzino brutalmente ucciso in Mississippi nel 1955, entrambi eventi alla base della nascita del fondamentale Civil Rights Movement.

Da oggi, quindi, gli Stati Uniti dispongono finalmente di una vetrina grazie alla quale il doloroso passato degli afroamericani non sarà più un tabù, e l’augurio è che questo museo possa essere soltanto il primo passo verso una consapevolezza ed accettazione universale che ancora manca, soprattutto e paradossalmente, tra gli stessi discendenti degli schiavisti bianchi del sud.

In effetti, si potrà parlare di autentica conquista quando un museo come il NMAAHC sarà aperto al pubblico in Stati ancora fortemente razzisti, come – per fare un paio di esempi - l’Alabama ed il North Carolina, dove ancora tanti (troppi) cittadini di pelle bianca espongono con orgoglio la bandiera confederata del 1863.

L’America, nonostante ci avviciniamo alla fine del 2016, resta un paese difficile e minato da focolai interni che ne rendono traballanti gli equilibri, tra chi è a favore della guerra al terrorismo e chi vede in essa una banale scusa per la conquista di beni altrimenti inaccessibili, chi è a favore del sistema capitalista più ferreo e chi vorrebbe più riguardo nei confronti dei meno abbienti, e chi crede che le origini schiaviste della nazione non dovrebbero essere condannate, in contrapposizione ai militanti per il riscatto sociale degli oppressi.

Parlare del razzismo non basta a smuovere le coscienze; secoli di lotte per l’integrazione e addirittura il (tuttavia blando) consenso politico non hanno comunque sfaldato quella che è, a conti fatti, la piaga culturale più aberrante ed estesa, non solo nei confronti di chi ha la pelle scura, ma a danno del “diverso” per definizione, come se la coesistenza di popoli diversi costituisca una minaccia all’unità identitaria da respingere con violenza.

L’hip-hop, che poi è la materia che trattiamo, ha responsabilità enormi in questo senso: nel corso della sua quarantennale storia, esso è stato in grado di aprirsi ad influenze esterne e di abbracciarle per il loro prezioso contributo, senza perdere la propria natura ed avvicinando centinaia di milioni di persone in ogni angolo del pianeta, a dimostrazione che una convivenza cordiale tra individui di differente estrazione è possibile quanto meravigliosa, ove questa non si trasformi in desiderio di prevaricazione.

La nuova esperienza del NMAAHC, pertanto, non dovrebbe limitarsi a fare da promemoria a chi nutre sentimenti negazionisti; si tratta al contempo di un monito verso la cultura hip-hop stessa, perché questa non si limiti ad essere una forma d’intrattenimento spicciola ma continui a farsi carico dell’eredità lasciata dagli eroi celebrati in quello stesso museo che oggi troneggia, severo, nella capitale degli Stati Uniti d’America. 

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).