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  • Categoria: Back In The Dayz
  • Scritto da Klaus Bundy

''Campaign Speech'': Eminem e la politica, tra passato, presente e futuro

Eminem

La campagna elettorale che premierà il successore di Barack Obama alla Casa Bianca, il prossimo novembre, sta ormai volgendo al termine. Sia Hillary Clinton che Donald Trump, armati da interessi che probabilmente varcano i confini dell’impegno politico, hanno entrambi dato il meglio (o il peggio) di sé nei tre grandi dibattiti che hanno di fatto concluso il match per la vittoria finale, mandando i cittadini americani alle urne forse con più perplessità che incrollabili sicurezze.

Come di consueto, il jet-set a stelle e strisce si è mobilitato in pompa magna per indirizzare l’elettorato, e mentre pochi coraggiosi hanno trovato gli argomenti convincenti (a loro dire) per sostenere l’impresentabile repubblicano Trump, il resto dell’élite della casta artistica d’oltreoceano si è divisa tra clintoniani ed astenuti, questi ultimi specchio, peraltro, di una non trascurabile fetta degli aventi diritto al voto.

Ed ecco che anche il vecchio Eminem, a pochi giorni dalle votazioni, ha fatto sentire la sua voce: un’opinione, quella dell’ormai quarantaquattrenne Marshall Mathers, attesa da tutti con trepidazione, vista la capacità del nativo di Detroit di muovere consensi e non suonare mai scontato alle orecchie del suo fedele pubblico.

Non è da ieri che il biondo veterano del Midwest ha cominciato ad interessarsi della cosa pubblica; già all’epoca dell’uscita dell’acclamatissimo “The Eminem Show”, datato 2002, Em fu in grado di abbattere un muro – quello della critica politica - che molti osservatori ritenevano non avrebbe mai avuto né il coraggio né la competenza di sfiorare, considerate le sue radici low class e la controversa sintassi espressa nelle canzoni.

Tuttavia, pur senza perdere la tipica carica irriverente, Eminem ha saputo sempre esprimere con sorprendente chiarezza i suoi (anche condivisibili) punti di vista, inquadrandolo tendenzialmente come un democratico progressista, anche se forse – come, d’altronde, ci capita di affermare anche nella nostra bella Italia – il figlioccio di Dr. Dre si sia trovato, al pari di altri milioni di americani, a schierarsi di volta in volta a favore del “meno peggio”, viste le pedine messe in campo negli ultimi vent’anni dal contrapposto partito conservatore.

Se “The Slim Shady LP” (1999) rifletteva una consapevolezza spazio-temporale sostanzialmente provinciale e “The Marshall Mathers LP” (2000) dava libero sfogo alla disobbedienza dell’eterno perdente asceso al paradiso dei grandi, “The Eminem Show” è stato davvero la più grande sfida mediatica di Eminem, tanto diretto nell’addossare le dovute colpe all’amministrazione Bush per la gestione della politica estera post-11 settembre, quanto lucido nell’analisi delle mancanze interne del suo paese, il tutto filtrato attraverso gli occhi di una nuova stella con occhi ed orecchie ancora ben puntati sulla strada.

Da allora, Eminem non ha mai smesso d’inserire l’elemento politico all’interno delle sue opere, e ancora oggi alcune di queste sono considerate autentici manifesti del genere; un genere che varca i confini del mero intrattenimento pop e strizza addirittura l’occhio all’impegnato political rap tanto caro a Chuck D e KRS-One, quasi sovversivo nella sua innegabile energia espositiva.

Come dimenticare, a quest’ultimo proposito, l’accusa d’ipocrisia nei confronti della piccola borghesia americana in “White America”, o il crudo attacco verso il già citato George W. Bush nella violenta “Mosh”, alla vigilia del suo secondo mandato? Oppure, ancora, la famigerata “We as Americans” (rimasta impressa nella memoria di molti per la rima “fuck money, I don’t rap for dead presidents / I’d rather see the president dead”), più vicina alla predica, o la sfrontata denuncia dell'orientamento guerrafondaio del Governo di “Square Dance”?

Dopo l’uscita di “Encore” (2004), in effetti, Eminem avrebbe fatto valere meno le sue considerazioni in materia su nastro, a causa dei ben noti problemi che lo afflissero durante il triennio 2005-2007 (la morte dell’amico Proof, il secondo divorzio da Kim e l’overdose da farmaci), ma l’uscita della traccia “Campaign Speech”, disponibile sul web da alcuni giorni, era un atto quasi dovuto: è oltremodo inquietante, infatti, ricordare oggi ciò che le telecamere di MTV immortalarono la sera del 28 ottobre 2004, in occasione del lancio del canale radiofonico Shade 45, presso l’ormai defunta Roseland Ballroom di New York; tra gli oratori a sostegno di un’improbabile candidatura a presidente degli States da parte di Eminem (l’iniziativa fu simpaticamente chiamata “Shady National Convention”), oltre a personaggi come Method Man e Busta Rhymes, ci fu proprio Donald J. Trump, un po’ più giovane rispetto a come appare ora, ma armato della stessa sicurezza e capacità d’intrattenere la folla che ha mostrato nel corso dell’attuale corsa alle presidenziali.

Parlar male di Trump, oltre che comprensibile, è stato utile ad Eminem per prendere ufficialmente le distanze da un personaggio tanto squallido quanto pericoloso, nonostante fosse già altamente inverosimile un eventuale endorsement da parte di un uomo che, per anni, non aveva fatto altro che parlar male di un imbarazzante politicante quale fu Bush. Della serie, “abbiamo giocato e scherzato, ma adesso basta”.

Tuttavia, sarebbe errato estrapolare questa mossa di Eminem dal contesto in cui essa risiede: che piaccia o no, infatti, Eminem non è più lo stesso artista che era una decina d’anni fa; il ragazzo bianco dei D12 si è dato una bella calmata e, da molto tempo ormai, ha smesso di far paura all’America. “Campaign Speech” ci riporta di certo alla sacralità della parola e a quell’impegno sociale che dovrebbe in qualche modo accomunare tutti i rapper, ma sarebbe pura illusione credere che Eminem tornerà d’un colpo alle insolenze che lo resero famoso nello stesso modo in cui è tornato ad ossigenarsi i capelli qualche anno fa.

Eminem oggi, continua ad occupare un posto unico nello sterminato e variegato panorama hip-hop, e certamente la sua passione per la cultura va ancora di pari passo con la genialità delle sue rime; in ogni caso, il ragazzo è cresciuto, sua figlia Hailie Jade si avvia quest’anno ai ventun anni d’età e i temi dei suoi brani abbracciano con vigore crescente la spersonalizzazione (basti pensare a “Love the Way You Lie” e “Space Bound”, impensabili fino alla pubblicazione di “Recovery”, nel 2010), universalizzandosi e muovendosi su territori soffici, innocui, come se la spietatezza del vocabolario debba ormai palesarsi per contratto.

Lungi da chi scrive considerare Eminem un attore, è altrettanto chiaro che il riciclo dei soliti argomenti (i conflitti con la madre e la moglie, l’amore per Hailie, ecc.) avrebbe dovuto avere, prima o poi, un termine definitivo. La politica, a ben vedere, con il suo costante dinamismo, potrebbe dare al nostro quel tocco vintage che metterebbe d’accordo anche i fans della prima ora, quelli che non si sono mai rassegnati alle collaborazioni con Rihanna e The Weeknd e sperano in un almeno velato ritorno alle origini.

Ci sarà un seguito a “Campaign Speech”, o resterà un isolato invito a non mettere la croce sulla casella di Trump in cabina elettorale il mese prossimo? Tutto dipenderà dal corso degli eventi, e azzardare una previsione non è l’obiettivo di questo articolo. Forse Eminem ha deciso di continuare l’evoluzione spirituale intrapresa ufficialmente con “Not Afraid”, sei anni e mezzo or sono, o forse – pungolato dalle offese a Trump - sarà di nuovo il suo celebre “evil twin”, Slim Shady, a riaffiorare ed imporsi come parte integrante dei progetti futuri che lo vedranno coinvolto. Quest’ultimo scenario è assai intrigante, ma è altrettanto improbabile nel concreto.

 

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).