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  • Categoria: Eyes On The Game
  • Scritto da Klaus Bundy

Addio a Prodigy dei Mobb Deep, bardo del Queensbridge

Prodigy

E’ proprio un peccato: ogni qualvolta se ne va un grande, ci rendiamo sistematicamente conto di non averlo osannato abbastanza in vita. Si tratta di una terribile consuetudine della natura umana, alla quale nessuno di noi può scampare, ed è infatti questo il sentimento che di certo prevale in queste ore nell’anima di tutti coloro che amano l’hip-hop, alla notizia dell’improvvisa morte di Prodigy dei Mobb Deep, avvenuta ieri a Las Vegas all’età di 42 anni. La causa ufficiale del decesso deve ancora essere determinata, ma pare che sia legata all’anemia falciforme (“sickle-cell disease”) di cui l’artista soffriva dalla nascita.

Prodigy è stato uno dei grandi del rap newyorkese degli anni ’90: insieme al compare Havoc (nella buona e nella cattiva sorte), ha dato un contributo fondamentale al consolidamento culturale di quella scena che, all’ombra delle Twin Towers, ha fatto in modo che tutte le altre zone rilevanti sulla mappa – West Coast, South, Midwest, ecc. – guardassero ad essa come un metro di paragone, un punto d’arrivo sommessamente venerato e rispettato.

Insieme al Wu-Tang Clan, gli Onyx e gli M.O.P., i Mobb Deep hanno raccolto il testimone dei giganti che li avevano preceduti, archiviando l’aspetto al contempo teatrale e politico che aveva caratterizzato gli anni ’80 e lanciandosi a piè pari nell’esperienza hardcore, la branca alla quale i cultori hip-hop guardano con maggiore nostalgia, superata forse soltanto da chi è stato testimone oculare dell’epoca dei block parties nel Bronx di DJ Kool Herc e colleghi.

I got you stuck off the realness”, recitava Prodigy nella prima strofa di “Shook Ones Pt. II”, ed è proprio in quella breve e minacciosa frase che potrebbe riassumersi l’intero concetto di “hardcore”: l’analisi scabrosa della dimensione sommersa, quella del ghetto, dove non c’è più spazio per l’utopica speranza di un mondo migliore, e la violenza risulta essere l’unica eredità lasciata dall’epidemia del crack appena rimarginatasi, nonché da un’amministrazione politica pressoché assente, quando non ostile.

Prodigy è stato figlio e bardo di una New York arresasi all’oppressione delle circostanze, uno dei narratori più fini ed affidabili che si siano visti sul palcoscenico, mai dimentico delle sofferenze vissute: il suo stesso volto, raramente sorridente, era ruvido e sinistro come le strade del suo Queensbridge, quartiere che – anche grazie all’opera stessa dei Mobb Deep – ha potuto consolidare negli ultimi vent’anni lo status di “luogo di culto” tra i cinque “boroughs” della metropoli che non dorme mai, privo di un qualsivoglia senso d’inferiorità e al cui cospetto oggi le “hip-hop heads” si levano rispettosamente il cappello.

In principio furono MC Shan, Marley Marl e la Juice Crew, che dovettero sgomitare non poco per far alzare il sipario sul sobborgo a sud del Bronx, quest’ultimo feudo incontestato dei Boogie Down Productions del combattivo KRS-One, con il quale Shan e i suoi ebbero non pochi grattacapi nel corso delle leggendarie “Bridge Wars”, alterchi dall’importanza storica enorme, sui quali, tuttavia, oggigiorno si fa troppo poca didattica.

Nas sarebbe arrivato qualche anno più tardi, quasi in concomitanza con Prodigy e Havoc, anche se tra il figlio di Olu Dara e il duo ci fu sempre una differenza sostanziale: mentre il primo ha saputo reinventarsi negli anni, creando attorno al suo personaggio un’aura prima mistica (“Nastradamus”) poi inscalfibile (“God’s Son”), i Mobb Deep mantennero sempre il baricentro sulla strada, senza mai permettere alle proprie personalità di prendere il sopravvento, fattore che fu indubbiamente fondamentale in termini di credibilità presso gli invisibili della provincia, perfettamente allineati con la mentalità rustica tipica dei già menzionati M.O.P., la cui casa si trova a Brooklyn, nel Brownsville.

Nonostante l’ammirevole curriculum, comunque, è necessario porre anche l’accento sulle debolezze di questa vita straordinaria, la cui parabola discendente è cominciata sul finire del millennio, per motivi nemmeno troppo difficili da intuire: mentre la scena hip-hop si avviava verso lidi più familiari alla massa pop, infatti, Prodigy e Havoc continuarono ad insistere sugli ormai superati cliché malavitosi che li avevano visti sfondare pochi anni prima, sulle ceneri di una forma espressiva troppo rude per sposarsi con il colorato mondo delle radio commerciali.

Quando, nel 2003, “Get Rich or Die Tryin’” di 50 Cent resuscitò in qualche modo l’hardcore, rielaborandolo in chiave moderna, furono in molti a credere che dei veterani – dopo averli debitamente ringraziati – non ci fosse più bisogno; invece, poco tempo dopo, sarebbe stato proprio il Re Mida di Southside Jamaica a dare ai suoi idoli d’infanzia una chance di riscatto, firmandoli presso la sua G-Unit Records, insieme a – chi altro, sennò? – M.O.P. ed una serie di promesse più o meno mantenute. Del gruppo faceva parte anche Mase, anche se mai formalmente scritturato presso la label (Diddy voleva non meno di 2 milioni di dollari per strapparlo alla Bad Boy), tornato nei ranghi dopo una fulminea carriera pastorale e sulle cui scelte – sia professionali che personali – non si è mai riuscito a trovare un coerente filo conduttore.

Blood Money” (2006) fu il decente prodotto della collaborazione tra G-Unit e Mobb Deep, anche se lontano mille miglia dai fasti di “The Infamous” (1995) e “Hell on Earth” (1996), capolavori che gli autori non sarebbero mai stati in grado di bissare.

L’esperienza solista di Prodigy, seppur prolifica, non lascerà ai posteri la stessa traccia marcata dal suo lavoro in coppia con Havoc, ed è proprio a causa di scelte artistiche diametralmente opposte che i Mobb Deep finirono per raggiungere il punto più basso della loro carriera: con l’accusa di essersi venduto al mercato mainstream (era appena uscito il terzo album di Prodigy, “H.N.I.C. 3”, dalle sfumature forse troppo “soft”), il 2012 rimarrà nella storia come l’annus horribilis della tristissima faida interna al duo, culminata – dopo una breve battaglia sui social – con il rilascio da parte di Havoc della dissacrante “Separated (Real from the Fake)”, dopo la quale seguiranno circa otto mesi di puro astio, prima della sospirata riconciliazione. 

Con il sennò di poi, siamo felici che sia andata così, e che Havoc e Prodigy abbiano potuto far pace prima della dipartita di quest’ultimo, evento che ha quindi segnato – in via irrevocabile – la fine dei Mobb Deep. Se un domani, chissà, qualcuno vorrà raccontare la storia di questi leggendari artisti, speriamo sinceramente che non sarà prodotto alcun film (anche in virtù delle controversie scaturite dalle recenti uscite di “Straight Outta Compton” e “All Eyez on Me”), ma che le generazioni future possano conoscerli ed amarli nell’unico modo sano e corretto: attraverso la loro musica.

 

 

Klaus Bundy
Author: Klaus Bundy
"I came to overcome before I'm gone, by showing and proving and letting knowledge be born" (Eric B. & Rakim).