- Categoria: Eyes On The Game
- Scritto da Klaus Bundy
Hip-Hop e politica: la guerra ideologica di Donald Trump
Pochi mesi ci separano ormai dall’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti, ed il mondo intero sta aspettando con ansia di sapere quale nuovo volto guiderà la nazione più potente e controversa del mondo.
Se da una parte, tuttavia, la battaglia è serrata – con Bernie Sanders e Hillary Clinton a contendersi la vittoria delle primarie democratiche per lo sprint finale alle urne – la fazione repubblicana sembra aver definitivamente trovato il suo candidato nella persona di Donald Trump, perfetto stereotipo del capitalista a stelle e strisce e conosciuto quasi più per le sue gaffe che per i suoi trionfi imprenditoriali.
Totalmente contrapposto ai capisaldi del pensiero cattolico e della tolleranza etnica, non sono in molti a sostenere che l’eccentrico Trump possa essere in grado di salire alla Casa Bianca, ma il perfetto sfruttamento delle risorse mediatiche e l’assenza di una valida alternativa – soprattutto in sede conservatrice – sta alimentando il timore di una sua possibile e sorprendente vittoria alle presidenziali del prossimo novembre, la quale – nel migliore dei casi – farebbe presagire una catastrofe politica e finanziaria senza precedenti per la terra d’oltreoceano.
D’altronde, trattandosi di un convinto sostenitore della destra più bigotta e nazionalista, non è difficile rendersi conto del perché il modello politico proposto da Trump sia così malvisto da quella parte del popolo americano che, dopo l’esperienza di Barack Obama, non vorrebbe assistere ad un’involuzione così netta e soprattutto pericolosa, considerando il problematico periodo storico in cui stiamo vivendo, segnato da sconvolgimenti geopolitici, fenomeni di terrorismo diffusi e dalla rielaborazione dello scacchiere economico.
Trump, con il suo precario savoir-faire, la chioma di dubbio gusto e l’inadeguata preparazione, propone una non-ideologia basata sull’innalzamento di barriere fisiche e concettuali tra i popoli (nel nome di una delirante forma di patriottismo), un boicottaggio della filosofia comunista di maccartista memoria, nonché la perpetua promessa di azione su temi storicamente “acchiappa-consensi” – quale l’abbattimento della pressione tributaria – che tanto alimentano l’utopia popolare ma che, nel concreto, si riducono solamente a pirotecnici slogan da tipico politicante navigato.
Molti vedono nella scalata elettorale di Trump una risposta di pancia dell’americano medio al ridimensionato ruolo occupato dal suo paese sulla scena mondiale, non più in totale controllo di quanto accade al di fuori dei propri confini ed ulteriormente destabilizzato dall’approdo sul mercato finanziario di nuovi protagonisti di peso, la Cina in primis.
Davanti a questo scenario molto poco rassicurante, la comunità hip-hop sembra aver assunto una posizione chiara: Donald Trump non è l’uomo giusto.
Da quando il magnate di Brooklyn ha annunciato la sua candidatura, nel giugno del 2015, sono stati tantissimi i rapper che si sono espressi contro la sua corsa, come Chuck D (che durante un recente show dei Public Enemy è arrivato ad urlare con rabbia “Black Lives Matter! Fuck Donald Trump!”), T.I., Jeezy, Mac Miller e Tyler, The Creator, soltanto per citarne alcuni.
Questa avversione si potrebbe ritenere già giustificata da una ragionevole dose di buonsenso, ma la realtà è ben più complessa e radicata nell’esperienza politica più recente degli Stati Uniti. Gli ultimi cinque presidenti repubblicani che si sono avvicendati nello Studio Ovale di Washington sono stati, nell’ordine: Richard Nixon (sostenitore del programma dell’FBI COINTELPRO e uomo-chiave nella distruzione delle Pantere Nere), Gerald Ford, Ronald Reagan (la cui esecrabile politica interna ha contribuito in maniera decisiva ad isolare nella povertà milioni di americani, non solo di colore, privandoli di una qualsiasi forma di welfare efficiente), George H. W. Bush e George W. Bush, questi ultimi due votati per lo più alla conquista delle ricchezze estere (leggasi “petrolio”), a discapito di un equilibrio nazionale sempre vacillante e mai riformato.
E’ anche vero che, in piena armonia con la glorificazione del Dio Denaro da parte di alcuni rapper tramutatisi in imprenditori a tempo pieno, alcuni personaggi noti dell’hip-hop hanno ammesso di fare il tifo per Trump, quali P. Diddy e 50 Cent, senza dubbio attratti dalle parole di un uomo il cui maggior (unico?) interesse è quello di difendere la categoria degli uomini d’affari, un vecchio mantra lobbistico che non sembra mai avviarsi al tramonto.
Negli ultimi giorni, è spuntata fuori una vecchia intervista di Tupac, datata 1992, nella quale il figlio di Afeni Shakur (che rischiò una condanna al carcere a vita per la sua militanza nelle Pantere Nere, proprio sotto un Governo repubblicano, quello di Nixon) parla del suo pensiero relativo a Trump, all’epoca già conosciuto come affarista ma non ancora nelle vesti di politico.
Secondo la visione di Tupac (che in gioventù, durante il suo periodo a Baltimora, si aggregò alla Young Communist League USA), persone come Trump non avrebbero dovuto avere la possibilità di diventare tanto ricche, preponderando piuttosto per un’azione a favore del razionamento delle abbondanze, in modo tale che ogni povero potesse ottenere ciò di cui avesse bisogno, secondo il più elementare pensiero della scuola comunista.
Negli anni successivi a quell’intervista, tuttavia, il Tupac politico della prima parte della sua carriera si sarebbe trasformato nel capitalista per eccellenza, sempre con un occhio agli emarginati, ma ormai acciecato dall’euforia del “disgraziato che ce l’ha fatta”, totalmente assorbito dalla libertà d’iniziativa dell’individuo, che sul set di “California Love” lo spinse addirittura ad affermare, di fronte alle telecamere di MTV ed in evidente stato d'esaltazione: “Stiamo facendo così tanti soldi che dovremmo cominciare a stampare i centoni con sopra le nostre facce!”.
Chi può dire come si sarebbero evolute le idee di Tupac negli anni, se il drive-by di Las Vegas non ce l’avesse portato via, vent’anni or sono? Avrebbe continuato con strenua determinazione a boicottare personaggi come Donald Trump, o la sete di successo lo avrebbe definitivamente portato ad assumere posizioni opposte alle prime?
Non potendo prevedere un futuro ipotetico e volendo credere all’incorruttibilità dell’anima di un personaggio tanto venerato quanto Tupac, preferiamo sostenere che il suo pensiero riguardante Trump non sarebbe mai mutato negli anni, ed è beffardo rendersi conto quanto una sua netta presa di distanza dal candidato repubblicano, oggi, sarebbe in grado di smuovere le coscienze di chi s’illude che un settantenne ipocrita e senza particolari meriti possa essere l’uomo giusto per guidare una nazione come gli Stati Uniti d’America.