- Categoria: Back In The Dayz
- Scritto da Klaus Bundy
L'evoluzione umana di The Notorious B.I.G., da Ready to Die a Life After Death
Quando The Notorious B.I.G. si presentò al mondo con “Ready to Die”, nel settembre del 1994, il suo messaggio era chiaro: al diavolo la profondità dei sentimenti, l’introspezione e l’utilizzo del rap come strumento di consapevolezza sociale, ciò che conta è il denaro, la donna e la pistola.
Ovviamente, il personaggio di Biggie Smalls era molto più complesso rispetto a come volesse presentarsi, ma il contenuto del suo primo album stava ad indicare quanto i ghetti newyorkese dei primi anni ’90, a Brooklyn in primis, stessero ancora patendo lo stesso e vergognoso degrado del trentennio precedente. C’era inoltre il bisogno di raccontare la propria storia, perché essa potesse arrivare a tutti e permettere al suo autore di tirarsene fuori, secondo un estremo bisogno di uscire dalla disperazione e cominciare a vivere una vita dignitosa; al contempo, tuttavia, la disillusione è ciò che colpisce di più l’ascoltatore, posto di fronte ad un titolo già eloquente (“pronto a morire”) e particolarmente azzeccato, ritraente il pensiero ultimo di un giovane uomo sulla soglia della disfatta.
Questo è, in sintesi, “Ready to Die”, uno dei migliori dischi della storia del rap, nonché protagonista di quella “East Coast Renaissance” che, tra il ’93 ed il ’97, avrebbe permesso alla costa atlantica di tornare in pari competizione con quella pacifica, quest’ultima prima voce del mercato discografico nero grazie all’inarrestabile successo della fucina targata Death Row Records.
La Bad Boy Records di Puff Daddy non aveva l’accumulo di talento che Suge Knight aveva a disposizione, ma la forza carismatica ed il talento di The Notorious B.I.G. bastavano per poter considerare la rivalità sufficientemente equilibrata: mentre la Death Row poteva sfoggiare personaggi del calibro di Snoop Dogg, Dr. Dre e – dall’autunno del ’95, Tupac Shakur, la Bad Boy non avrebbe potuto far altro che soccombere, se avesse dovuto contare unicamente sulla meteora Craig Mack o sull’incompleto Mase.
In questo senso, è doveroso riconoscere a Biggie il merito di aver portato alta la torcia della label di Puffy e dell’intera scena East Coast per un buon e cruciale triennio, prima che la sua prematura scomparsa, il 9 marzo 1997, ne mettesse per sempre a tacere i sogni e le ambizioni.
Christopher Wallace perì sotto i colpi dei suoi carnefici una quindicina di giorni prima che la sua seconda fatica, “Life After Death”, arrivasse nelle mani dei fans e rinnovasse in tutti la convinzione che l’ex spacciatore di Bedford-Stuyvesant fosse un autentico genio dello storytelling.
Rispetto a “Ready to Die”, “Life After Death” celebra l’inaspettato ritorno alla vita di colui che, nel capitolo precedente, si era dichiarato pronto ad andare incontro al proprio triste destino. Per quanto non manchino pezzi rozzi e spietatamente cruenti (in ricordo di un passato che, alla fine, non passa mai davvero), il sound dell’album rivela una gamma di emozioni più patinata e solare, come se i problemi di un tempo fossero stati ormai superati e l’unica preoccupazione fosse diventata quella di gestire nella maniera corretta la nuova esistenza da milionario.
Grazie allo straordinario successo di “Ready to Die”, infatti, Biggie era finalmente riuscito ad abbandonare le strade malfamate della sua Brooklyn, ed è per questo motivo che, se avesse continuato a parlare della sua condizione quotidiana in termini miserevoli, non solo avrebbe fatto un torto ai suoi sostenitori, ma avrebbe anche mentito a se stesso, poiché quella di un tempo era ormai una realtà che non gli apparteneva più.
Senza peccare di falso disinteresse, il figlio di Voletta ci presenta ogni dettaglio della discrepanza tra il mondo che ha lasciato e quello che ha trovato, e la vera grandezza della sua lucida esposizione risiede nell’abilità di creare ancora genuino interesse, nonostante i contenuti di chi ha tanti soldi in tasca siano generalmente superficiali e ripetitivi; al contrario, lascia quasi increduli realizzare quanto il B.I.G. ricco e famoso sembri più introspettivo e profondo di quello che, soltanto un paio d’anni prima, predicava il suo amore per i soldi e venerava la donna come semplice oggetto di divertimento. Certo, la vocazione per la lussuria ed il guadagno di verdoni resta, ma ora abbiamo a che fare con un ragazzo più maturo, concentrato sui figli e sul futuro di questi, con più di un occhio rivolto ai problemi derivanti dal nuovo ed illustre status quo, senza comunque dimenticare, come detto, da dove tutto è partito.
Ancora tantissimo si potrebbe dire sull’evoluzione umana che ha portato Biggie Smalls, nel giro di un pugno di anni, a trasformare la sua persona in maniera incredibilmente netta e radicale, ma ci limitiamo alle considerazioni fondamentali, anche per evitare di appesantire la lettura inutilmente. Sia “Ready to Die” che “Life After Death” sono oggi considerati capisaldi della storia del rap di tutti i tempi, così diversi tra loro ma al contempo uniti da un unico filo narrativo, un’unica storia autentica modellata secondo le dinamiche delle imprevedibili circostanze esistenziali. Un manuale di vita, in due volumi.