- Categoria: Back In The Dayz
- Scritto da Klaus Bundy
Buon compleanno, Tupac: un mito che ha ancora tanto da insegnare
Quarantacinque anni ed una settimana fa, nella città di New York, la compianta Afeni dava alla luce Tupac Amaru Shakur, un nome che la storia – non solo hip-hop, ma anche americana - avrebbe finito per annoverare tra i suoi più indomiti giganti.
Tupac è oggi considerato, tra tutti, il personaggio più leggendario che il folklore musicale afroamericano degli ultimi trent’anni abbia visto, molto probabilmente alla pari di un altro immortale, il bluesman Robert Johnson, anch’egli vittima di una morte prematura e sulle cui gesta terrene dominano ancora tinte piuttosto oscure.
A vent'anni dalla scomparsa di Shakur, tirare le somme porta con sé sia la soddisfazione nel vedere quanto la sua vita sia diventata oggetto di studio anche presso la difficile generazione contemporanea, sia un alone di delusione per il modo in cui la storia di questo grande uomo viene puntualmente rielaborata e stereotipata.
La breve esistenza di Tupac ha conosciuto un numero impressionante d’inversioni di marcia, e cercare di catalogarlo per semplificarne la comprensione è un atto quasi vandalico, per non dire offensivo; il suo percorso ha conosciuto contraddizioni, sconfitte e anche capitoli piuttosto abietti, a dimostrazione di come qualsiasi essere umano, a prescindere dalla sua grandezza artistica o dal suo peso culturale, sia comunque afflitto dagli stessi problemi dei comuni mortali.
Soprattutto a proposito della sua scomparsa, avvenuta a Las Vegas nel pomeriggio del 14 settembre 1996, è stato scritto un mare di balle, tutte volte a mistificare l’ovvio, trovare un significato trascendentale alla banalità della morte, secondo la solita e ritrita tradizione complottista che vuole Elvis Presley, Jim Morrison e tanti altri eroi del XX secolo tutti felici su un’isola lontana, fuggiti dalle luci della ribalta attraverso l’inscenamento del proprio decesso.
Questo modo di pensare, che ancora oggi fa credere a tantissimi fans che il loro idolo sia ancora vivo, è inutile quanto irrispettoso: invece di cercare messaggi subliminali di natura numerica o frasi dal dubbio significato nei testi delle canzoni, gli appassionati dovrebbero concentrare i loro sforzi sull’immenso valore artistico della musica di Tupac, così come sullo studio del suo pensiero politico e sociale, che andava ben oltre l’intimidatorio “Thug Life” tatuato sull’addome.
Tupac porta con sé oltre cinquant’anni di storia del Nuovo Mondo, dal genocidio schiavista del popolo africano alle lotte di Malcolm X per l’uguaglianza tra bianchi e neri, passando attraverso la repressione razzista e la povertà, il tutto condito da doti oratorie e carismatiche che – in un contesto diverso - ne avrebbero certamente fatto un grande leader per la fazione afroamericana.
A questo, tuttavia, vanno affiancate le debolezze, le esitazioni e la fondatezza di alcune critiche portate avanti dai suoi detrattori, specialmente legate all’ultimissimo periodo della sua vita, quando la controversa filosofia manageriale della Death Row Records lo trasformò in una macchina da soldi, forse troppo distante da quel rapper consapevole che, soltanto qualche anno prima, raccontava al mondo la tragica storia di Brenda e del suo bambino.
Il mito di Tupac, comunque, sarà sempre destinato a dividere, non solo tra chi ne fa un mito senza ombre e chi lo reputa un abile manipolatore, ma anche tra chi considera ogni sua uscita discografica un capolavoro (addirittura quelle postume) e chi invece è più propenso ad ammettere alcune distinzioni.
La carriera di Shakur, in effetti, ha attraversato tre fasi distinte: la prima, che va dalla pubblicazione di “2Pacalypse Now” (1991) a “Strictly 4 My N.I.G.G.A.Z…” (1993), è sostanzialmente impregnata sui temi di lotta e disobbedienza sociale che, all’epoca, inquadravano i suoi testi come “political rap”; “Me Against the World” (1995) è invece un’opera a se stante, la più apprezzata dai cultori hip-hop per le sue rime meditate e le sfumature blues, composto in un periodo spartiacque per il suo autore, stritolato nella morsa della depressione da un attentato, un’accusa di violenza sessuale ed il conseguente spettro della detenzione in carcere; “All Eyez on Me” (1996) e “The Don Killuminati: The 7 Day Theory” (1996), infine, si configurano come gli album più apprezzati dal pubblico pop, in particolar modo il primo dei due, grazie ai suoi ritmi orecchiabili e alla selezione di singoli dalla facile presa sul giovane popolo di MTV (leggasi “California Love” e “2 of Americaz Most Wanted”).
La disamina stessa della discografia di Tupac ci costringe a trovare molteplici chiavi di lettura per decifrare nella maniera più corretta la natura di ogni rima, ricordandoci puntualmente come sia impossibile (e sbagliato, d’altronde) affibbiare etichette ad una personalità tanto complessa.
Oggi, nell’era di Internet e dei social network, è nostro dovere far tesoro dell’opportunità che ci viene data, cioè quella di avere accesso ad un numero sterminato d’informazioni, in modo chiaro ed immediato, senza censure né mediazioni; in ogni caso, ogni utente deve sempre ricordare quante bufale e notizie non corrette vengano quotidianamente pubblicate in rete, motivo per cui, come si diceva all’inizio, è d’obbligo approcciarsi alla conoscenza con il sincero desiderio d’imparare la realtà, e non una sua ricostruzione alternativa.
Potrà sembrare banale sostenerlo, ma è anche a causa della poca importanza che viene data allo studio della storia se oggigiorno il panorama rap pullula di figure dalla dubbia moralità, che nulla hanno a che vedere con ciò che i padri fondatori e i veterani del movimento hanno cercato di creare e far prosperare, portando quindi i cosiddetti “seguaci” a sostenere che l’indegno spettacolo a cui stiamo assistendo sia effettivamente l’hip-hop, ma così non è.
Tupac non si è mai fatto depositario dei dogmi hip-hop nel corso della sua vita, non ha mai cercato di predicarne i valori nello stile, ad esempio, di KRS-One; tuttavia, molte delle azioni di cui egli si è reso concretamente protagonista (unitamente alla sua sconfinata passione per la cultura, com’è espresso nella non molto conosciuta “Old School”, tratta da “Me Against the World”) rappresentano in pieno il senso di consapevolezza ed il costante bisogno di lottare per il cambiamento che l’hip-hop, nella sua forma più alta e nobile, ha sempre professato.
Troppe ed inutili distinzioni, oggi, si fanno tra “conscious rappers” ed “entertainers”, e non c’è nulla di più sbagliato: Tupac (e tanti come lui, a dire il vero) ha dimostrato che le due definizioni sono perfettamente sovrapponibili, ed anzi dovrebbe essere il preciso dovere di ogni rapper unire il carisma alla capacità di costringere le masse alla riflessione, perché è esattamente questa la ragione per cui l’hip-hop ha davvero senso di esistere.
Senza dover scavare tra le pieghe più recondite della storia, quindi, basterebbe una giusta analisi della vita di Tupac Shakur per capire verso quale orizzonte la cultura hip-hop tende le sue mani, evitando vuoti stereotipi ed imparando così la reali ragioni per cui, attualmente, avremmo un disperato bisogno di uno come lui.