- Categoria: Back In The Dayz
- Scritto da Klaus Bundy
Lyrical rapper ed entertainer: un dibattito senza senso
Oggi più che mai, le capacità liriche dei rapper sono al centro di una vasta discussione che si è velocemente trasformata in vero e proprio dibattito tra due scuole di pensiero ben distinte.
E’ un dato di fatto, d’altronde, che il cosiddetto “lyricism” non sia oggi in cima ai pensieri di un qualsiasi giovanotto che si prefissi lo scopo di sfondare con la musica rap, ritenendo piuttosto fondamentale la creazione ad hoc di un personaggio “diverso”, che sappia intrattenere il pubblico in maniera spicciola e, se possibile, oltraggiosa.
Parlare di soldi con una collana d’oro al collo ed un bicchiere di lean in mano è un cliché che ci portiamo dietro da almeno vent’anni, ma la popolarità acquisita nell’ultima decade dai rapper provenienti dal sud degli Stati Uniti (Lil Wayne e compagnia blaterante) ha ispirato un numero sempre maggiore di macchiette imitatrici, vuote e pronte a riscrivere senza delega alcuna i canoni di un’intera cultura.
Il risultato? E’ presto detto, nonché di facile intuizione: sul mercato discografico di primo livello, si possono contare sulle dita di una sola mano quei rapper che fanno della propria arte un sincero tributo alla cultura hip-hop, dando ancora un valore centrale ai testi delle proprie canzoni e che si adoperano perché l’unicità dei loro personaggi non sfondi ciecamente i muri della decenza.
Alla base ci sono seri problemi storici, per i quali la pochezza artistica passa quasi in secondo piano: il movimento hip-hop, concepito nelle sue primissime fasi come strumento solidale e di congregazione per i neri di New York, ha poi rapidamente dirottato la sua missione verso scopi più nobili e funzionali, come quello di dare finalmente agli afroamericani una voce attraverso cui reagire alle ingiustizie perpetrate dalle assenti istituzioni governative.
Quelli erano gli anni ’80, ed era un mondo totalmente diverso rispetto a quello attuale: il crack mieteva vittime per le strade, alla Casa Bianca sedeva Ronald Reagan e la parola “razzismo” non era ancora pronunciata con lo stesso disprezzo di oggi, ma stiamo ben attenti a pensare che quel tipo di realtà non ci appartenga più.
Negli Stati Uniti, gli americani di colore sono ancora le prime vittime di un sistema democratico distorto, ma l’attuale livello di globalizzazione ci spinge ad un’ulteriore riflessione: se siamo stati capaci di fare nostro lo stile di vita a stelle e strisce, dobbiamo anche far sì che il movimento hip-hop continui ad avere un senso, estendendo il proprio messaggio rivoluzionario a tutte quelle zone del mondo dove la povera gente sopravvive in una condizione di estrema ingiustizia e repressione.
Il lavoro che si è fatto fino ad ora in questo senso, tuttavia, mostra esiti a dir poco disastrosi: colpevoli i vergognosi esempi che ci vengono offerti dalla scena d’oltreoceano, nel resto del globo – e, più nello specifico, qui in Italia – abbiamo assorbito l’idea che l’hip-hop sia un mezzo come un altro d’intrattenimento, richiedente un impatto immediato sul pubblico e “ribelle” soltanto nell’atteggiamento, sguarnito di una qualsiasi forma di contenuto che si possa definir tale.
Come detto, i segnali negativi sono innanzitutto inviati dalla madrepatria, dove ultimamente si sta cominciando a parlare con chiarezza della direzione che sta prendendo la musica rap, in un confronto tra giovani entusiasti e vecchi eroi che, purtroppo, devono prendere atto del nuovo corso.
In sostanza, ciò che sta emergendo dagli esempi offerti dalle major discografiche e dalle discussioni pseudo-filosofiche sulla dottrina è che il “lyrical rap”, cioè quello che guarda alla penna come un’arma più potente della spada, stia scomparendo del tutto.
A rinfocolare questo postulato, tra l’altro, si sta sviluppando con vigore crescente il pensiero che ci sia una differenza genetica tra il “conscious rapper” e l’”entertainer”, come se un’etichetta escludesse l’altra. Niente di più sbagliato.
Questo tipo di distinzione è sempre più spesso accostato, ad esempio, al rap ibrido proposto da Drake, ma anche altri rappresentanti della nuova scuola - quali Future, Young Thug e Desiigner, giusto per citarne alcuni – sono posti al centro della medesima classificazione, nonostante si tratti soltanto di una palese scusa per dare spazio a pagliacci di quinta categoria che avrebbero dovuto dedicarsi ad altro nella vita.
Ricordiamoci inoltre che, di fronte alla sacralità e alla storia di un movimento, l’approvazione generale del pubblico non costituisce affatto una fonte di legittimazione, e chi afferma il contrario ignora in toto i meccanismi intricati e le strategie del miliardario mercato discografico.
La verità sommersa che quasi nessuno vuole ammettere, comunque, è che stiamo vivendo in un’epoca assai scarna di talento, nella quale una miriade di attoruncoli da quattro soldi e creati con lo stampino si stanno ritrovando a raccogliere le redini di una scena che un tempo apparteneva a Biggie e Tupac, cresciuti a pane e videoclip della stagione bling bling e per questo ora smaniosi di accedere allo stesso modello oltraggioso di lusso. La vocazione si ferma lì.
Separare la figura dell’intrattenitore da quella del predicatore (“suvvia, Drake l’ha messo in chiaro fin da subito di non essere un tipo alla Kendrick Lamar”, è ad esempio la frase più spesso pronunciata per difendere le canzoncine da club del canadese) ha quindi come fine esclusivo quello di abbassare gli standard, lasciando a pochi coraggiosi l’impresa di salire sul palco dei BET Awards con un testo illuminato e premiando invece chi tra tutti è più capace di far muovere il didietro ai giovani frequentatori delle discoteche di ogni continente.
Non è un caso che proprio artisti come Drake e Future siano tra i più apprezzati dalle stesse ragazzine quattordicenni che, insieme a “Views”, conservano nella loro cameretta una copia dell’ultimo disco di Justin Bieber. Ed il problema non è neppure l’apprezzamento di questi soggetti nei confronti dei rapper mainstream, ma i reali motivi dell’apprezzamento: tredici anni fa, ogni adolescente minorenne e pieno di foruncoli sulla faccia si dichiarava fan sfegatato di 50 Cent, ma il buon vecchio Curtis Jackson (ora, a dire il vero, un po’ disorientato) portava con sé una storia, e che poi fosse capace di raccontarla attirando una marea umana è soltanto ammirevole.
Chi attualmente ha davvero qualcosa d’interessante da dire?
L’evidenza parla da sé, e la cosa più stupida che possiamo fare è prender per buono ciò che il mercato ci tira addosso, facendoci credere che il rap sia una questione esclusiva di “atteggiamento” e che i tempi della riflessione e della profondità morale siano finiti.
Un rapper può e ha sempre potuto unire la capacità d’intrattenere a quella di comunicare con il suo ascoltatore, ed è questo d’altronde ciò che lo differenzia da un mero esecutore di brani pop scritti a tavolino per lui dall’anonimo paroliere di turno: basti pensare allo stesso Tupac, capace di entrare nella cultura popolare con un singolo dal fortissimo impatto sociale come “Brenda’s Got a Baby”, o all’ancor più fortunata “Juicy” di Biggie, perfetta nella coesione tra ritmi radio-friendly e meravigliose sentenze motivazionali.
Chi potrebbe mai mettere in dubbio la presa che queste due compiante leggende avevano sul giovane pubblico dell’appena sbocciata MTV? E chi avrebbe altresì il coraggio di considerarli soltanto alla stregua di uomini di spettacolo?
La paura di chi studia la storia dei neri americani sin dai tempi delle piantagioni di cotone è che l’uomo nero torni a recitare la parte della caricatura di se stesso, confinandosi in una nicchia innocua dalla quale può farsi grosso dei suoi gioielli e delle sue macchine costose, mentre lo stesso sistema – che, in quanto rapper, dovrebbe contribuire a sovvertire con le sue parole - si sente al sicuro e fa cassa sulla sua stessa carriera.
L’assenza di coscienza espressiva potrebbe da qui in avanti innescare un effetto domino in grado di danneggiare irrimediabilmente il modo in cui l’hip-hop viene percepito presso le masse: un tempo guardato con timore, diffidenza e sincera curiosità per le questioni che sollevava, un domani come semplice strumento di svago con cui combattere la noia nel tempo libero.
E’ senz’altro difficile comprendere appieno un background intellettuale così distante da noi, ma se ci siamo avvicinati a questo universo è perché avvertiamo (si spera) dei punti di contatto con esso, che vanno oltre l’orecchiabilità di un singolo sentito per caso nella sala d’attesa del dentista. E’ nostro dovere difendere i principi fondamentali che hanno sempre caratterizzato l’hip-hop e non arrenderci a quel martellamento mediatico che vuole imporci qualcosa che non riconosciamo per definizione, anche a costo di sembrare inaccontentabili.
Se saremo in grado di rimanere fedeli alla cultura, pur non contrastandone l’evoluzione, e di stare lontano da dibattiti inutili, come quello sul lyrical rapper e l’entertainer, allora avremo qualche speranza di avviare un’inversione di marcia; in caso contrario, dovremo abituarci alle biascicate rime da poppante di Future e dei suoi simili, ed incontrare in ogni dove fanciulle senza arte né parte in delirio per l’ennesima hit alla “Hotline Bling”. Dio ce ne scampi.