- Categoria: Back In The Dayz
- Scritto da Klaus Bundy
#BlackLivesMatter
Quanto accaduto nell’ultima settimana negli Stati Uniti d’America riporta alla luce un problema culturale dal quale nessuno di noi dovrebbe prendere le distanze dello spettatore.
Se Alton Sterling, Philando Castile e i cinque poliziotti di Dallas hanno perso stupidamente la vita, è anche colpa delle mancanze strutturali dell’attuale movimento hip-hop, che da troppo tempo ormai ha abbandonato a se stesse le comunità, rivolgendosi alle anime borghesi che forse simpatizzano addirittura per i nostalgici della Confederazione del 1861, rendendo quindi arido il terreno sul quale dovrebbe invece prosperare una parità sociale che, nel Nuovo Mondo, non si è mai davvero raggiunta.
Chi credeva che l’hip-hop fosse soltanto un’altra forma d’intrattenimento e non avesse alcun tipo di responsabilità rispetto alle dinamiche politiche della collettività dovrà quindi necessariamente ricredersi: mentre la politica statunitense rimane ostaggio delle famigerate lobby che da tempo immemore – e per soddisfare la propria bigotta sete di potere - impediscono una vera quanto necessaria crescita intellettuale del paese, l’unica via percorribile per il progresso è l’iniziativa popolare, secondo le stesse linee-guida mostrate dai grandi movimenti degli anni ’50 e ’60, quelli che permisero sia alle donne che agli afroamericani di emanciparsi ed abbandonare per sempre lo stagno dell’invisibilità.
In questo senso, pochi giorni fa, ha avuto un forte impatto mediatico la conferenza stampa organizzata a Los Angeles presso il quartier generale del LAPD, che ha visto partecipare nella veste di protagonisti due personaggi di prim’ordine come Snoop Dogg e The Game, in prima linea per cercare di risolvere un’ostilità tra neri e polizia conosciuta ormai da troppi decenni, specialmente in California.
Proporre una sinergia che abbatta il tasso di omicidi nelle strade perpetrate dagli uomini in divisa verso i poveri cittadini di colore appare, almeno sulla carta, un’iniziativa encomiabile, ma servirà davvero a qualcosa?
L’America non è nuova a questo tipo di manifestazioni, e i precedenti tentativi di mediazione non hanno avuto risultati di cui andare fieri: già nei primissimi anni ’90, subito dopo il verdetto sul caso di Rodney King (che fece infuriare la comunità nera al punto di fargli mettere a ferro e fuoco mezza L.A.), l’ex campione di football Jim Brown, il capo della Nation of Islam, Louis Farrakhan, e addirittura Bloods e Crips cercarono di attivare una cooperazione pacifica con i rappresentati dello Stato che sfociò nella notevole Million Man March del 16 ottobre 1995, ad oggi la manifestazione afroamericana più vasta di tutti i tempi, organizzata in quella stessa Washington che, quarant’anni prima, aveva dato spazio al memorabile discorso “I have a dream” del reverendo Martin Luther King.
Purtroppo, per motivi diversi, sia il “sogno” di King del ’63 che quello di Farrakhan del ’95 finirono per diventare sinonimi di utopia, entrambi resi sterili dall’assenza di una seria volontà da parte degli apparati governativi di collaborare verso lo sfaldamento della morale segregazionista.
Sono i tristi ricorsi storici, quindi, che non dovrebbero farci illudere: vedere Snoop dare abbracci e pacche sulle spalle a quegli stessi agenti che un tempo dichiarava di esser pronto a far fuori è certamente singolare, ma nulla cambierà nel concreto finché gli artisti hip-hop non utilizzeranno l’arma dell’intrattenimento per toccare le corde più sensibili della gente.
Un brano musicale è in grado, infatti, di penetrare l’anima di un individuo con un’efficacia senza pari, ed è proprio attraverso l’arte che possiamo almeno sperare di accendere la miccia del progresso.
Perché questo avvenga, tuttavia, sono necessarie due condizioni ben precise e coesistenti:
in primo luogo, è essenziale che i rapper con il più capiente bacino di pubblico la smettano di perpetrare un comportamento cartoonesco, caricaturale, stereotipato e vuoto nei contenuti, sfruttando invece la loro popolarità per impegnarsi nello smentire chi oggigiorno pensare che l’hip-hop sia diventato un diversivo pop per adolescenti ribelli, pubblicando quindi canzoni, video musicali e tutto ciò che serve per inviare un messaggio rivoluzionario che catturi l’attenzione dei fans;
in secondo luogo, la nostra risposta deve essere pronta ed entusiasta, accogliendo a braccia aperte la profondità d’intenti degli artisti ed accantonando una volta per tutte quella che chi scrive definisce “la stima per il nulla”, ossia la glorificazione del dilettantismo che sta quasi facendo vergognare i cultori di far parte di questa comunità.
E’ soltanto con queste premesse, alle quali dovremmo far fede con strenua caparbietà, che potremo ambire ad una credibile inversione di marcia; un’inversione di marcia che non rimarrebbe relegata agli Stati Uniti, ma che varcherebbe i confini e sarebbe presa d’ispirazione per risolvere i disagi sociali negli altri angoli del globo, proprio come nel secondo dopoguerra l’anticolonialismo ispirò i sentimenti che permisero l’ottenimento di quei diritti che oggi ci permettono di vedere un afroamericano alla Casa Bianca ed una donna in piena corsa per prenderne il posto